martedì 24 aprile 2012

ORFEO


La parola, il canto, la musica: queste le armi con cui il poeta tracio Orfeo, il meno muscolare tra gli eroi greci, incantava e soggiogava i suoi nemici e la stessa natura. Un’arte, quella di Orfeo, che sapeva svelare il mistero celato oltre la superficie delle cose, e che ha originato una vera e propria religione a lui ispirata, il cosiddetto Orfismo. Una voce così nitida e potente da risuonare con forza persino nelle profondità dell’Oltretomba, dove Orfeo si era avventurato per amore…
Nato in Tracia, terra di confine tra la Grecia e l’oriente, Orfeo fondeva in sé le qualità  dello sciamano, del filosofo e del sacerdote. La sua arte, esoterica e insieme razionale, sapeva cogliere per via intuitiva i segreti più intimi della natura, ma al tempo stesso dare ordine al caos attraverso la ragione. Una bivalenza, quella di Orfeo, da cui nasceva il tono inconfondibile della sua voce, così ispirata da assumere la forza di una profezia.

GENEALOGIA DI ORFEO

Tutti gli autori antichi concordano nel ritenere Orfeo figlio di Eagro, re della Tracia. Quest’ultimo aveva ereditato il trono dal padre Carope, al quale era stato concesso dal dio Dioniso come ricompensa per averlo salvato da un tentativo di assassinio. Più discussa l’identità della madre di Orfeo, che in genere viene identificata con Calliope, la più alta in dignità delle nove Muse, protettrice dell’epica e della poesia lirica. Altre fonti attribuiscono invece la maternità di Orfeo a Polimnia, Musa dell’arte mimica o della danza, e altri ancora a Menippe, figlia di Tamiri, mitico suonatore di lira. Qualunque discendenza gli venga attribuita, Orfeo è comunque sempre associato alla figura delle Muse (lo stesso Tamiri è talora considerato figlio di una di esse, Melpomene), e ricondotto a un’area geografica, la Tracia, nota, oltre che per i suoi legami con l’arte divinatoria, anche per la sua vicinanza all’Olimpo (dove spesso Orfeo è raffigurato mentre suona). Secondo alcune tradizioni mitologiche, il poeta tracio aveva anche un fratello, Lino, a sua volta abilissimo musicista, e forse persino un figlio, Museo, nato però non dal suo matrimonio con la ninfa Euridice, bensì da una relazione con Selene, la dea della Luna.

VIAGGIO AGLI INFERI

Secondo ma mitologia greca, Orfeo è il più grande musicista, cantore e poeta dell’antichità, superiore persino a Omero, che alcuni ritengono un suo discendente. Celebrato già in epoca antichissima, ha assunto tratti via via più misteriosi, fino a trasformarsi in una sorta di figura sacerdotale, quasi una divinità attorno alla quale si è sviluppata una teologia di tipo iniziatico, l’Orfismo, che condizionò notevolmente la spiritualità del mondo greco. Lo stesso Cristianesimo delle origini è stato influenzato dalla religione orfica, come testimonia l’esistenza di raffigurazioni di Orfeo nell’iconografia cristiana primitiva. Al di là della sua valenza spirituale, Orfeo è però ricordato dai testi antichi soprattutto per il suo viaggio agli Inferi in cerca della moglie Euridice. La vicenda, narrata tra gli altri anche dal poeta latino Virgilio, inizia quando Euridice, ninfa dei boschi, viene morsa da una vipera mentre cerca di sfuggire a un tentativo di stupro. La giovane muore, ma il marito Orfeo, incapace di rassegnarsi alla sua perdita, scende negli Inferi a cercarla, incantando con la sua musica i mostri che ne sorvegliano l’accesso. Giunto infine dinnanzi ad Ade e Persefone, ottiene dai sovrani dell’Oltretomba il permesso di riportare Euridice sulla Terra, a patto che non si volti a guardarla fino all’uscita dall’Aldilà. La forza dell’amore, però, tradisce Orfeo, che si gira per controllare che Euridice lo stia seguendo, e così la perde definitivamente. Disperato, Orfeo cerca di tornare nel regno di Ade, ma stavolta Caronte è inflessibile e gli nega l’accesso. Al poeta non resta perciò che risalire sulla Terra, dove il rimpianto per la moglie perduta lo renderà ostile verso l’intero genere femminile.


ROCCE IN MOVIMENTO

Con le sue melodie, Orfeo poteva ammansire gli uomini e le belve feroci, far piegare le chiome degli alberi e persino stregare le rocce e gli oggetti, che si muovevano al suono della sua cetra.

LA CETRA MAGICA

La cetra di Orfeo era in genere ritenuta un dono di Apollo, che l’aveva ceduta all’eroe dopo averla ricevuta da Ermes. Altri autori sostenevano invece che fosse stato lo stesso Orfeo a inventare quel magico strumento, oppure che l’avesse modificato portandone le corde da sette a nove (come il numero delle Muse).

FINE DEI SUPPLIZI

Dalle corde di Orfeo scaturivano note così celestiali che, quando egli scese agli Inferi per recuperare la moglie Euridice, la sua musica non solo commosse Ade e Persefone, ma fece cessare per qualche istante persino i supplizi con cui venivano puniti i dannati.

LE SIRENE ZITTITE

Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Orfeo fa parte della schiera di eroi che, al seguito di Giasone, salpa dalla Tessaglia alla ricerca del Vello d’oro. Dato il suo modesto vigore fisico, egli resta però ai margini di scontri e combattimenti. Durante la navigazione, il suo ruolo principale è quello di capovoga, ovvero di colui che dà la cadenza ai rematori con la sua musica. In occasione di una tempesta, inoltre, egli placa i flutti con il canto e, quando la nave Argo approda in Samotracia, intercede per i suoi compagni presso i Cabiri, misteriose divinità ctonie al cui culto è stato iniziato. La sua presenza di rivela infine decisiva in occasione del passaggio degli Argonauti dinnanzi all’isola delle Sirene: con il suo canto, infatti, egli riesce a superare in dolcezza quello delle Sirene, impedendo ai suoi compagni di gettarsi in mare per raggiungere quei famelici demoni marini.

IL PASTO DELLE BACCANTI

La morte di Orfeo ha dato origine a diverse interpretazioni mitologiche, tutte però concordi nell’attribuire alle donne tracie l’uccisione del poeta. La più comune è quella prospettata dal drammaturgo greco Eschilo, secondo il quale Orfeo, dopo aver perso definitivamente Euridice, vagò a lungo sconsolato per i boschi, fino a che non incontrò un gruppo di Baccanti (dette anche Menadi). Queste lo invitarono a partecipare a uno dei loro riti orgiastici, ma poiché Orfeo, dopo la morte di Euridice, rifiutava ogni contatto con le donne, le Baccanti, offese, lo fecero a pezzi e lo divorarono. Una variante dello stesso mito attribuisce invece l’uccisione di Orfeo alla sua predicazione a favore della sua omosessualità, ritenuta dalle donne tracie un insulto alla loro femminilità. C’è poi una terza versione della leggenda, secondo la quale Orfeo, al suo ritorno dagli Inferi, avrebbe fondato una confraternita di iniziati, dedita a culti misterici ispirati alla sua esperienza nell’Aldilà. Dalla setta erano però escluse le donne che, per vendetta, tesero un agguato a Orfeo e compagni e li massacrarono. Dopo la morte, le Muse raccolsero i pochi resti di Orfeo e li seppellirono a Libetra, sulle pendici del monte Olimpo. La testa dell’eroe, invece, fu gettata dalle Baccanti nel fiume Ebro, che la trasportò fino al mare da dove approdò sull’isola di Lesbo. Qui gli abitanti le tributarono solenni onori funebri ed eressero una grande tomba a ricordo del poeta, seppellendovi anche la sua cetra. Secondo una curiosa leggenda, anche dopo essere stata sepolta la testa di Orfeo continuò a cantare e profetare, fino a che Apollo, indispettito da quei vaticini che allontanavano i fedeli dall’oracolo di Delfi, a lui consacrato, si recò a Lesbo e le intimò di tacere.


UN SIMBOLO SENZA TEMPO

La figura di Orfeo ha conosciuto grande fortuna nell’arte di ogni epoca. Se nel V secolo d. C. Sant’Agostino ne fa il simbolo del poeta-teologo, Severino Boezio, nel De Consolatione Philosophiae interpreta il suo volgersi verso Euridice come un emblema della sconfitta dell’anima legata alle passioni terrene. Nel Rinascimento, il poeta Angelo Poliziano (Fabula di Orfeo) utilizza il mito greco come spunto per una riflessione sul tema di amore e morte. Invece Calderon de la Barca, ne Il Divino Orfeo, fa del cantore tracio una personificazione di Gesù Cristo. La pittura celebra Orfeo con dipinti di numerosi artisti, tra cui Tiziano e Rubens, mentre la musica lo omaggia con l’opera Orfeo ed Euridice di C. W. Gluck. L’arte moderna ha più volte riletto il mito di Orfeo con i testi teatrali di Vinicius de Moraes e Jean Anouilh, le poesie di Dario Campana e Rainer Maria Rilke, i racconti di Gesualdo Bufalino e Cesare Pavese, i film di Jean Cocteau e Albert Camus.

sabato 7 aprile 2012

ATENA (MINERVA)



Dea guerriera per eccellenza, Atena, la Minerva romana, è l’alter ego di Ares, il selvaggio signore delle battaglie e dei conflitti. Quanto questi è crudele, istintivo, sanguinario, tanto Atena mantiene il controllo di sé e delle sue passioni anche nel tumulto dei combattimenti. La ragione guida ogni suo pensiero e decisione, ed è per questo che gli antichi Greci le attribuivano il patronato sulle strategie e sulle tattiche militari, oltre che la paternità di molte macchine belliche.
Figlia di Zeus e di Meti “La Prudente”, Atena fondeva in sé le prerogative dei suoi due illustri genitori. In lei il valore e la forza ereditati dal padre non erano mai disgiunti dal raziocinio materno, e per questo era considerata dai Greci la seconda divinità più potente dell’Olimpo, l’unica che poteva presiedere con identica saggezza ai tempi di guerra e a quelli di pace.

GENEALOGIA DI ATENA

Eccezionale sin dalla nascita, Atena uscì già armata dalla testa di Zeus che, afflitto da una terribile emicrania, aveva ordinato a Efesto di aprirgli la nuca con un colpo d’ascia. Ma non meno insoliti erano stati gli antefatti di questo parto straordinario. Dopo aver posseduto la prima moglie, Meti, Zeus si era infatti impaurito, poiché Urano e Gea, suoi antenati, gli avevano predetto che da quelle nozze sarebbe nato un figlio destinato a detronizzarlo. Il signore dell’Olimpo aveva perciò convinto Meti a trasformarsi in una goccia d’acqua e poi l’aveva ingoiata viva, crescendo dentro di sé la figlia che la moglie attendeva. Nata già adulta, Atena si dimostrò sin dal principio inattaccabile dalle passioni d’amore. Ciononostante gli antichi le attribuivano un figlio, Erittonio, per metà uomo e per metà rettile, nato da un tentativo di stupro da parte di Efesto. Questi aveva cercato di possedere con la forza la dea, ma era riuscito solo a spargere il suo seme sulla gamba di Atena che, disgustata, lo aveva pulito con una foglia. Poi aveva gettato la foglia al suolo, ingravidando così la Terra Gea. Dopo il parto di Gea, Atena si prese cura di Erittonio, prima affidandolo alle tre figlie di Cecrope, re di Atene, poi, dopo che queste avevano disubbidito  alla sua prescrizione di non guardare il piccolo, allevandolo nel sacro recinto del suo tempio sull’Acropoli.

AL FIANCO DEGLI EROI

Da Omero in avanti, non si contano i racconti mitologici in ci Atena ha il ruolo di protagonista o di motore occulto degli avvenimenti. Nell’Iliade, per esempio, la dea interviene a più riprese al fianco dei Greci, proteggendo e sostenendo le imprese dei suoi eroi preferiti, come Diomede e Ulisse. Non meno rilevante il suo ruolo nella conquista del Vello d’oro da parte di Giasone, non fosse altro per il sostegno fornito all’eroe nella costruzione della nave Argo. E decisivo è l’intervento di Atena anche nella saga di Eracle, che la dea prende sotto la sua ala protettiva sin dalla prima fatica. Il rapporto strettissimo tra la dea e la città di Atene trova invece espressione nella leggenda che la vuole in lite con Poseidone per la conquista del patronato sulla polis, uno scontro in cui Atena prevalse donando alla cittadinanza una pianta di ulivo (mentre il dio del mare aveva fatto scaturire dalla roccia una sorgente di acqua salata). Ma anche altre città greche avevano un legame speciale con Atena, e tra queste Sparta, che alla dea aveva dedicato un grande tempio sull’Acropoli con le pareti interne rivestite di bronzo. All’infanzia della dea si riferisce infine una leggenda diffusa dall’erudito greco Pseudo-Apollodoro nel II secolo d.C. Secondo questo racconto mitologico, Atena, dopo la nascita, sarebbe stata allevata dal dio Tritone, che aveva a sua volta una figlia di nome Pallante. Le due fanciulle amavano esercitarsi tra loro nell’arte del combattimento, fino a che, accidentalmente, Atena non uccise la compagna, distratta da un intervento di Zeus. Disperata, la dea fece allora costruire una statua che riproduceva le fattezze dell’amica, il Palladio, e la collocò sull’Olimpo accanto al trono di Zeus.


SPIRITO GUERRIERO

Nella Titanomachia, la violenta guerra tra Olimpi e Titani per il controllo dell’universo, Atena manifesta il proprio spirito guerriero uccidendo ben due Giganti: il feroce Pallante, con la cui pelle si fodera lo scudo, e il mostruoso Encelado, che sotterra gettandogli addosso l’intera Sicilia.

IL SOGNO DI NAUSICAA

Nell’Odissea, Omero fa intervenire più volte Atena in aiuto di Ulisse. È celebre per esempio l’episodio in cui la dea appare in sogno a Nausicaa, figlia del re dei Feaci Alcinoo, inducendola a recarsi a lavare i panni al fiume. Qui la giovane incontra Ulisse, nudo e reduce da un rovinoso naufragio, e gli fornisce le vesti per recarsi a corte e chiedere ad Alcinoo una nave per tornare a Itaca.

IL DONO DELLA PROFEZIA

Secondo il mitografo greco Pseudo-Apollodoro, fu Atena ad accecare l’indovino Tiresia, che per sbaglio l’aveva vista nuda mentre faceva il bagno. Poiché tuttavia il giovane non aveva colpe dell’accaduto, ed era figlio di una ninfa cara ad Atena, la dea lo risarcì accordandogli il raro dono della profezia.

SFIDA AL TELAIO

Uno dei miti più suggestivi su Atena è quello che racconta la sua sfida al telaio con Aracne, una fanciulla abilissima nell’arte della tessitura. Fiera delle sue capacità, Aracne volle un giorno competere con Atena, che inutilmente le si presentò nei panni di una vecchia esortandola a recedere dalla sua arroganza. La ragazza, convinta di non aver bisogno di consigli, la coprì di insulti. La dea allora si rivelò, e la sfida ebbe inizio. Atena realizzò un arazzo che raffigurava gli dèi nella loro maestà, mentre Aracne, in segno di scherno, rappresentò sul suo tessuto gli amori adulterini di Zeus. Il suo lavoro era perfetto, ma Atena, adirata per la scelta del soggetto (e forse timorosa di essere sconfitta) fece in pezzi la tela della rivale. Umiliata, Aracne tentò allora di impiccarsi, ma Atena non glielo permise, e la trasformò in un ragno costretto per l’eternità a filare e tessere il filo a cui è appeso.

UN CULTO DIFFUSO

Atena era, insieme a Zeus, la divinità più venerata dell’Olimpo greco, e il suo culto permeava in pratica tutte le aree di cultura ellenica, dalla Grecia propriamente detta all’Asia minore fino all’Italia meridionale. Tale diffusione era favorita dal gran numero di requisiti e poteri attribuiti alla dea. In particolare concorreva al successo di Atena il ruolo, universalmente riconosciuto, di protettrice dello Stato e di tutto ciò che allo Stato poteva arrecare autorità e benessere: dall’amministrazione della legge al corretto svolgimento della vita democratica (l’assemblea del popolo era posta sotto la sua tutela), dalla difesa dei confini in tempo di guerra alla tutela dell’ordine pubblico in tempo di pace. Ad Atena, inoltre, era assegnato il patronato sull’agricoltura, in virtù del suo ruolo determinante nell’introduzione della coltivazione dell’ulivo in Attica, oltre che la tutela di tutti i mestieri e le attività  artigianali (tra cui l’oreficeria e la tessitura).
Dea della saggezza e della razionalità, Pallade Atena (l’epiteto era forse traccia di una preesistente divinità riassorbita nel suo culto) era frequentemente associata alla filosofia e alle altre attività intellettuali; ma più spesso la si venerava in quanto dea delle arti, funzione nella quale tendeva a soppiantare persino le Muse. Anche la musica rientrava negli ambiti di Atena, tanto che alcune leggende le attribuivano l’invenzione della tromba e del flauto, strumento di cui, secondo un mito, si sarebbe sbarazzata dopo essersi accorta di quanto la imbruttisse suonarlo. Alla protezione della dea si affidavano infine gli studenti prima degli esami e gli atleti, ateniesi e non, che partecipavano ai Giochi panatenaici, la più celebre tra le manifestazioni sportive organizzate in suo onore.


IL VOLTO PAGANO DELLA VIRTU’

Casta, saggia, prudente, Atena non poteva che essere apprezzata dalla cultura cristiana postclassica, che ne fece spesso l’incarnazione della temperanza contrapposta al vizio (per esempio nei dipinti Il trionfo della virtù, di Andrea Mantegna, e Minerva e il Centauro, di Sandro Botticelli). Molto frequente anche l’antitesi tra la saggia Atena e la passionale Afrodite (per esempio in un sonetto del 1602 di Lope de Vega) e l’interpretazione allegorica della dea come personificazione delle arti e delle scienze. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, la figura di Atena (dal cui nome deriva il termine “ateneo”) passò a simbolizzare le virtù della libertà e del regime repubblicano. Il francese Ernest Renan le elevò un vero e proprio inno in prosa nella Preghiera sull’Acropoli (1865), mentre autori come Ugo Foscolo (Le Grazie) e Vincenzo Monti (Inno a Pallade), la omaggiarono come emblema perfetto di bellezza, virtù e civilizzazione.

GIASONE



Valoroso e opportunista, insensibile e temerario, Giasone è l’eroe più controverso del mondo greco. In lui l’audacia si mescola spesso all’irresolutezza, e il senso dell’onore lascia il posto al calcolato cinismo con cui sfrutta i sentimenti dell’amante Medea per conquistare il Vello d’oro. Un personaggio ambiguo e sottilmente “odioso”, un “antieroe” radicalmente diverso dagli epici guerrieri dei poemi omerici.
Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, il suo principale cantore, Giasone è descritto come inadeguato, fragile, indeciso, scialbo, un semplice ingrediente di un poema epico incentrato sulla figura di Medea, ben più forte e risoluta di lui. Eppure Giasone è uno dei più antichi eroi classici, preesistente persino ai personaggi di Omero. Una figura venerata in molte città greche, che in lui riconoscevano il simbolo dell’espansione ellenica in Asia Minore.

GENEALOGIA DI GIASONE

A differenza di molti altri eroi greci, Giasone non ha, tra i suoi parenti più immediati, eroi o divinità. Suo padre, infatti, è Esone, figlio del re di Tessaglia Creteo, defraudato del trono dal fratellastro Pelia, che prima lo imprigionò e poi lo uccise. Quanto alla madre, in genere veniva identificata con Polimede, figlia dell’astuto Autolico, noto per le sue ruberie e per il fatto di essere il nonno di Ulisse. Altre fonti sostengono invece che a generare Giasone fosse stata Alcimede, figlia di Filaco e Climene, che restò al fianco di Esone anche durante i duri anni della prigionia, e si suicidò quando questi venne messo a morte da Pilia. Privo di legami diretti con gli Olimpi (ma tra i suoi antenati più lontani figuravano Ermes, padre di Autolico, e Zeus, bisnonno di Creteo), Giasone si ricollegava al mondo delle divinità attraverso la moglie Medea, il cui padre, Eete, era figlio del dio del Sole Elio, mentre la madre Idia era il frutto dell’unione tra Oceano, dio delle acque, e Teti. Inoltre, in quanto discendente di Eolo, padre di Creteo, Giasone apparteneva alla stirpe di Deucalione, rifondatore del genere umano dopo il diluvio voluto da Zeus.

UNA VITA IN FUGA

Sopravvissuto per miracolo al colpo di stato di Pelia, che aveva ucciso tutti gli altri figli di Esone, il piccolo Giasone fu cresciuto in una grotta dal centauro Chirone, che lo educò all’arte della guerra e della medicina. Poi, una volta adulto, tornò a Iolco, in Tessaglia, con l’intenzione di rivendicare il trono che gli era stato sottratto. Vestito con una pelle di pantera, si presentò a Pelia, che al solo vederlo ne ebbe timore: un oracolo, infatti, gli aveva predetto che sarebbe morto per mano di un uomo con un solo piede calzato. E Giasone, per scelta o per caso, quel giorno indossava un unico sandalo. Deciso a togliere di mezzo il rivale, Pelia finse dunque di assecondarlo, dicendosi disposto a cedergli il trono a condizione che egli portasse a Iolco il Vello d’oro, prezioso manto d’ariete in possesso del re della Colchide Eete. Era certo, Pelia, che il nipote sarebbe morto nell’impresa. Ma Giasone, con il sostegno di Atena, allestì una spedizione a cui parteciparono tutti i più grandi eroi greci, ribattezzati Argonauti dal nome della nave su cui viaggiavano. E insieme a loro – e con l’aiuto di Medea, figlia adolescente di Eete che si era innamorata di lui – si impradonì del Vello. Tornato a Iolco, Giasone ricorse alle arti magiche di Medea per eliminare Pelia, che aveva ucciso suo padre Esone. Poi cercò di sostituirlo sul trono, ma Acasto, figlio di Pelia, riuscì a cacciarlo dalla città. Per Giasone e la moglie Medea iniziò così una lunga serie di peregrinazioni che li condussero infine a Corinto. Qui l’eroe conobbe Glauce, bella figlia del re Creonte, e se ne innamorò. Ripudiata la moglie per la nuova amante, Giasone fu vittima della vendetta di Medea, che prima uccise Glauce con una veste stregata e poi massacrò i due figli nati dal suo matrimonio con l’eroe. Fuggì quindi in cielo su un carro alato, mentre Giasone, in disgrazia presso gli dèi, lasciava Corinto per un esilio conclusosi con la morte.


IL VELLO D’ORO

Nel suo nucleo originario, il mito della spedizione degli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro è antichissimo: già Omero, nell’Odissea, mostra infatti di conoscere le imprese di Giasone e dei suoi compagni. A dare dignità letteraria al racconto fu però Apollonio Rodio, erudito di epoca alessandrina che, nel poema Le Argonautiche, narrò la spedizione nei minimi particolari. Il racconto di Apollonio inizia quando Giasone, invitato da Pelia a recuperare il prezioso manto, incarica Argo, figlio di quel Frisso che, anni prima, lo aveva donato al re della Colchide Eete, di costruire una nave da cinquanta posti. La nave (ribattezzata Argo come il suo costruttore) è presto pronta, e vi si imbarcano, oltre allo stesso Giasone, tutti i principali eroi dell’epoca: da Eracle a Teseo, dai gemelli Castore e Polluce a Laoconte. Inizia così un’avventura che, attraverso un numero infinito di pericoli, deviazioni, imprese, porterà gli Argonauti a raggiungere la Colchide, sulle coste del Mar Nero. Qui Giasone ottiene da re Eete la promessa di riavere il Vello d’oro, ma a patto che aggioghi all’aratro una coppia di buoi dalle narici fiammeggianti, e che con essi semini i denti del drago ucciso anni prima dall’eroe tebano Cadmo. Nell’impresa, Giasone viene aiutato da Medea, figlia di Eete, che con i suoi poteri magici lo rende immune dai colpi dei tori e poi addormenta il drago che vigila sul Vello d’oro, consentendogli di recuperare il mitico manto senza pericolo. I due, insieme agli altri Argonauti, fuggono quindi dalla Colchide, dirigendosi con il Vello verso Iolco. Ma nel viaggio di ritorno sono colti da una violenta tempesta, che porta la loro nave fuori rotta e li costringe a vagare a lungo nel Mediterraneo prima di ritrovare la via di casa.

UN TRAGICO EQUIVOCO

Un celebre episodio delle Argonautiche ha per protagonista Cizico, nobile re dei Dolioni. Egli dapprima accoglie con tutti gli onori gli Argonauti, ma poi, quando questi, sospinti dai venti, approdano per la seconda volta sull’isola, a causa dell’oscurità li scambia per pirati, costringendoli a ucciderlo in battaglia.

IL LUTTO DI ERACLE

Tra gli eroi che si imbarcano sulla nave Argo vi è anche Eracle, il figlio di Zeus, che però lascia la spedizione quasi subito, distrutto dalla morte del suo amante Ila che le ninfe, durante uno scalo, hanno annegato in una sorgente.

L’INCONTRO CON CIRCE

Di ritorno dalla Colchide, gli Argonauti approdano sull’isola di Ea, regno della maga Circe, zia di Medea. Questa purifica Giasone e ha una lunga conversazione con la nipote, ma si rifiuta di ospitare l’eroe nel proprio palazzo, forse presagendo il suo tradimento ai danni della moglie.


UN LAMPO NEL BUIO

Nel mare di Creta, gli Argonauti sono sorpresi da una notte opaca e tenebrosa, che li mette in pericolo. Giasone implora allora Febo Apollo di mostrargli la rotta, e questi, impietosito, lancia in cielo un dardo infuocato che, squarciando l’oscurità, permette agli Argonauti di individuare un approdo sicuro.

UN PERSONAGGIO DA TRAGEDIA

Primo antieroe della cultura occidentale, Giasone ha riscosso attenzione soprattutto nel XX secolo, quando di lui si sono interessati la letteratura (con i romanzi Il Vello d’oro, di Robert Graves, e Il racconto di Giasone, di Vassilis Vassilikos), la pittura (celebre il dipinto di Giorgio de Chirico intitolato La partenza di Giasone) e il cinema (con due film dedicati alla spedizione degli Argonauti). Più marginale la presenza di Giasone nell’arte antica, anche se Dante non manca di inserirlo tra i fraudolenti dell’ottavo cerchio dell’Inferno e Francesco Petrarca gli dedica una biografia nel De Viris Illustribus. Nel teatro seicentesco, Giasone ha un ruolo da protagonista in tragedie di Calderòn de la Barca (Divino Giasone), Lope de la Vega (Il Vello d’oro) e Pierre Corneille (Medea), mentre l’arte ottocentesca si è riappropriata del suo mito rendendogli omaggio attraverso la trilogia di Franz Grillparzer Il Vello d’oro e le complesse allegorie dei pittori preraffaelliti  e simbolisti.


mercoledì 4 aprile 2012

ERMES (MERCURIO)



Ogni volta che doveva comunicare a qualcuno i suoi ordini, il sommo Zeus si rivolgeva a Ermes, il messaggero dell’Olimpo. Una divinità dai tratti decisamente umani, più scaltra e sagace che potente. Un mediatore abile ed eloquente, che alternando inganno, lusinga e minaccia, era in grado di convincere chiunque ad assecondare la volontà divina.
Accorto, sagace, molto prudente, Ermes (il Mercurio dei latini) non era solo un perfetto ambasciatore di Zeus sulla Terra. Era anche un astuto, e spesso disonesto, “uomo d’affari”, adorato dai commercianti come loro protettore. Gli antichi greci attribuivano inoltre all’araldo di Zeus la paternità di un gran numero di invenzioni, tra cui la lira, il fuoco, l’alfabeto e persino il sistema numerico.

GENEALOGIA DI ERMES

Dio olimpico di seconda generazione, Ermes è il frutto degli amori tra il sommo Zeus e la più giovane delle Pleiadi, la bella ninfa Maia. Nel suo albero genealogico figurano dunque, per via paterna, divinità potentissime come il titano Crono, sovrano dell’universo prima di Zeus, e la moglie Rea. Per parte di madre, il messaggero degli dèi discende invece dal gigante Atlante e dall’affascinante Pleione (figlia di Oceano e Teti), che insieme al marito generò sette sorelle destinate ad essere trasformate in una costellazione: le Pleiadi, appunto. Piuttosto complessa anche la discendenza del dio, a causa del gran numero di amori che gli venivano attribuiti. Tra questi i più celebrati dai mitografi greci furono senza dubbio quelli con la permalosissima dea dell’amore Afrodite, da cui Ermes ebbe Ermafrodito, e con la ninfa Driope, che gli diede in figlio il dio Pan. Ma l’elenco delle conquiste di Ermes è molto più nutrito e include sia donne leggendarie come Penelope, la moglie di Ulisse (che, a detta di alcuni, fu la sua amante), sia grandi divinità come Persefone.

LA LITE CON APOLLO

Nato in una caverna sul monte Cillene, nel sud dell’Arcadia, Ermes dimostrò sin dal principio un’irrequietezza non comune: nel suo primo giorno di vita, infatti, inventò la lira, ricavandola dal guscio vuoto di una tartaruga, e poi rubò le mandrie di Apollo, nascondendole e celandone le tracce. Tornò quindi di soppiatto nella culla, dove si riavvolse nelle fasce da cui si era liberato per fuggire. Poco dopo giunse alla grotta Apollo, che, grazie alle sue doti divinatorie, era riuscito a scoprire il rifugio del ladro. Fuori di sé, il dio accusò Ermes di fronte alla madre che però, ignara di tutto, difese il figlio, chiedendo ad Apollo come potesse accusare un neonato di un furto così grave. Apollo, però, insistette e, poiché non si riusciva a venire a capo della questione, fu chiamato a giudicare il caso Zeus, che non si fece ingannare dai dinieghi di Ermes ed impose di restituire le mandrie rubate. La riconsegna del bestiame, tuttavia, non ebbe mai luogo, perché Apollo, avendo sentito Ermes suonare la lira, gli propose di tenersi le mandrie in cambio di quello strumento dalle note tanto celestiali. Ermes potè così coronare il suo sogno di avere una mandria tutta sua da accudire, mentre Apollo entrava in possesso di quello che sarebbe diventato uno dei suoi simboli. Dopo la riappacificazione tra i due rivali, Zeus nominò Ermes suo messaggero di fiducia, con l’assenso degli altri dèi che, a loro volta, ebbero dal signore dell’Olimpo il permesso di servirsi di quel giovane tanto sveglio. Per Ermes iniziò  così un periodo impegnativo, durante il quale dovette assolvere innumerevoli missioni: fu lui, per esempio, a condurre Priamo, re di Troia, alla tenda di Achille per chiedere il corpo del figlio Ettore da seppellire. Sempre lui consegnò il piccolo Dioniso alle ninfe perché lo allevassero, e condusse Afrodite, Era ed Atena davanti a Paride per il celebre “concorso di bellezza” da cui sarebbe scaturita la guerra di Troia. A lui, infine, si rivolse Zeus quando, avendo la moglie Era tramutato in vacca la sua amante Io, volle liberare quest’ultima uccidendo il gigante di nome Argo che la sorvegliava.


SIGNORE DEL LOGOS

La regione greca in cui il culto di Ermes aveva radici più profonde era l’Arcadia, dove il dio era nato e aveva trascorso i primi giorni di vita. Ma in tutta la penisola ellenica la devozione verso il messaggero alato era piuttosto sentita, anche in virtù del gran numero di prerogative che gli venivano attribuite. In quanto araldo e ambasciatore dell’Olimpo, egli era infatti considerato il dio dell’eloquenza, poiché anche con l’arte della parola, il logos, risultava persuasivo nei discorsi pubblici e privati. Al tempo stesso, e per l’identico motivo, era il dio dell’astuzia, della malizia, che a volte si spingeva fino alla frode e al raggiro (di qui la sua popolarità tra i ladri). Dovendo viaggiare in continuazione per “lavoro”, Ermes era ritenuto il protettore dei viandanti, come testimoniava la presenza lungo le strade greche e romane di numerose erme, pilastrini quadrangolari sormontate dalla testa del dio e con vistosi organi sessuali (simbolo, forse, della fecondità del dio). A Ermes, inoltre, veniva attribuito (specie nella versione romana di Mercurio) il patronato su tutte le attività commerciali, oltre che quello sulle greggi e sulla pastorizia in genere. Ermes era anche molto caro ai musicisti, che gli dovevano l’invenzione della lira, del flauto e della scala musicale. E altrettanto era amato dagli atleti, da cui veniva considerato il nume tutelare del pugilato e di tutte le attività ginniche. Di lui si diceva anche che sapesse guardare oltre l’apparenza delle cose (il termine “ermeneutica”, l’arte di interpretare i significati nascosti, deriva dal suo nome), e per questo gli venivano attribuiti legami con la scienza divinatoria e il mondo dei sogni (di cui era ritenuto l’ispiratore). Tra i tanti compiti assegnati ad Ermes, vi era infine quello di “psicopompo”, ossia di accompagnatore delle anime dei morti nel doloroso viaggio verso gli inferi. Un ruolo che gli spettava quasi di diritto, dato che, nella sua veste di messaggero celeste, era abituato a varcare confini in genere inviolabili, come quelli tra la Terra e il Cielo o tra il mondo dei vivi e quello dei morti.


OMAGGIO A ERMES

Tra i ritorni non solo occasionali della figura di Ermes/Mercurio nell’arte e nella letteratura postclassica, i più frequenti si collocano in epoca rinascimentale e barocca, quando la figura del dio appare tra i protagonisti dello Scherno degli dèi, il poema di Francesco Bracciolini pubblicato nel 1610, e dell’Adone di Giambattista Marino (1623). Piuttosto ricco anche il repertorio di sculture cinquecentesche dedicate al dio, tra cui le statuette in bronzo di Jacopo Sansovino (1540) e Benvenuto Cellini (1545). In campo pittorico, al mito di Ermes si sono ispirati artisti come Pietro da Cortona, Giovanni Battista Tiepolo e il francese Claude Lorrain. La musica, invece, ha omaggiato quello che gli antichi Greci ritenevano il suo patrono con la sinfonia n. 43 dell’austriaco Franz Joseph Haydn. In epoca più recente, il messaggero alato compare in una commedia di Vittorio Alfieri (La finestrina), in un inno di P.B. Shelley e in un dipinto (Art and Life) del preraffaellita Walter Crane.

lunedì 2 aprile 2012

SFINGE



Già solo a vederla metteva paura: un enorme corpo di leone con un volto femminile e due ali da rapace. Ma ancora più spaventosa era l’abitudine della Sfinge di sbranare i viandanti che non sapevano rispondere al suo indovinello. Un enigma appreso dalle Muse e all’apparenza irresolubile, con il quale terrorizzò Tebe fino al giorno in cui incontrò Edipo…
Assai diffusa in Egitto , dove costituiva un’immagine simbolica del faraone, la figura della Sfinge cambiò aspetto e connotati nel passaggio al mondo greco: da maschile, solare e benevola divenne femminile, tenebrosa e distruttrice. Un minaccioso incrocio tra umano e bestiale, in cui la forza dell’intelligenza era sovrastata dalla brutalità dell’istinto e dalla pulsione alla violenza.

GENEALOGIA DI SFINGE

Legata soprattutto alla leggenda di Edipo e al ciclo tebano, la Sfinge (il nome, in greco, significa “la Strangolatrice”) passava per essere figlia di Echidna, orrendo ibrido tra una donna e una vipera, e del cane a più teste Ortro. Tra i suoi fratelli vi erano dunque creature spaventose come il Leone di Nemea, ucciso da Eracle nella sua prima fatica, e Fice, feroce mostro di Beozia. E tra i suoi antenati più prossimi vi era il nonno Tifone, gigante alato alto fino al cielo e con vipere al posto delle gambe. Altre tradizioni mitologiche sostenevano invece che proprio Tifone fosse il padre della Sfinge, nata dall’unione del mostro con Echidna o, come sosteneva Euripide, con la figlia di quest’ultima Chimera. Una terza versione del mito, infine, si distanziava dalle precedenti perché attribuiva alla Sfinge un padre non mostruoso bensì umano. A generarla, nel corso di una relazione extraconiugale, sarebbe stato infatti Laio, re di Tebe, che poi l’avrebbe chiamata a Tebe e posta a guardia della città. Secondo questa genealogia, la Sfinge sarebbe stata quindi sorellastra di Edipo, l’eroe che, molti anni più tardi, l’avrebbe uccisa.

L’ENIGMA FATALE

La Sfinge comparve a Tebe durante il regno di Laio, pronipote del fondatore della città Cadmo e padre di Edipo, ripudiato dal sovrano subito dopo la nascita. A inviarla si diceva fosse stato Dioniso, il dio del vino, offeso con i tebani perché trascuravano il suo culto; ma altri, forse più credibilmente, attribuivano la comparsa del mostro alla collera di Era, indignata con Laio perché aveva rapito il piccolo Crisippo e lo aveva reso il suo amante. Accovacciata su una colonna alle porte della città (o, secondo altri, su una rupe del monte Ficio), la Sfinge teneva da anni in scacco Tebe, sottoponendo ogni viandante che vi transitava al suo terribile indovinello: “Quale essere, con una sola voce, ha dapprima quattro gambe, poi due, infine tre, ed è tanto più debole quante più ne ha?”. Chi non sapeva rispondere (e nessuno finora vi era riuscito) veniva strangolato e divorato sul posto. I Tebani erano disperati: ogni giorno si riunivano nella piazza principale della città per tentare di risolvere in comune l’enigma, ma senza risultato. Finché a Tebe non giunse Edipo, il figlio di Laio, che poco prima aveva ucciso il padre in una zuffa fuori città senza riconoscerlo. Edipo si recò dalla Sfinge e, senza esitazioni, rispose al suo quesito. “L’uomo”, disse, “perché va carponi da bambino, cammina sulle due gambe da adulto e si aiuta con un bastone in vecchiaia”. Disperato, il mostro alato si uccise gettandosi dalla colonna. Al che i Tebani, esultanti, acclamorono Edipo loro re ed egli sposò Giocasta, la moglie di Laio, ignaro che fosse sua madre. Secondo un’altra versione del mito, il quesito posto a Edipo dalla Sfinge sarebbe stato diverso: “Esistono due sorelle, delle quali una genera l’altra, che a sua volta genera la prima. Chi sono?” (la soluzione è il Giorno e la Notte). Inoltre la Sfinge, dopo la “vittoria” di Edipo, non si sarebbe “suicidata”, ma sarebbe stata uccisa dall’eroe con un colpo di lancia.


LE ORIGINI DEL MITO

Quando approdò nel mito classico, la figura della Sfinge aveva già una lunga storia alle spalle. Le sue origini vengono in genere collocate in Mesopotamia, circa 3000 anni prima di Cristo, dove spesso si trovano rappresentati demoni alati con la testa umana e il corpo di leone (per esempio nel palazzo imperiale di Susa, che risale però al 600 a.C.). Da lì, il mito della Sfinge si irradiò poi nei paesi vicini, fino al Mediterraneo, trovando declinazioni diverse a seconda delle popolazioni da cui veniva adottato. In particolare ebbe enorme fortuna in Egitto, dove pare che la Sfinge rappresentasse l’autorità del Faraone, oltre che una sorta di custode dei sepolcri. Non a caso, di fronte all’ingresso di molte piramidi, si trovano gigantesche riproduzioni del mostro in posizione distesa, con le zampe anteriori protese in avanti e lo sguardo perso nel vuoto, come a scrutare un orizzonte ultramondano. Il passaggio in area micenea segnò un’ulteriore evoluzione della Sfinge, che cambiò innanzitutto i suoi connotati fisici: se in Egitto era un leone (o cane) privo di ali e con la testa di uomo, nella versione greca divenne una leonessa con il corpo alato, ma il petto e il volto femminile. Si esasperarono inoltre i tratti più minacciosi del mostro, che perse ogni aspetto metafisico per diventare, in età arcaica, una belva spietata che rapisce e divora i bambini.
Nell’arte arcaica mesopotamica, così come successivamente  in quella egizia e greca, la Sfinge poteva avere talvolta il volto di uomo barbuto.
Persi i suoi attributi negativi, nella Grecia postclassica la Sfinge iniziò a essere considerata la messaggera della giustizia divina e una sorta di amuleto contro gli influssi malefici.
Le sfingi dell’antico Egitto avevano solitamente il busto eretto, lo sguardo rivolto verso oriente (forse in ossequio ai culti solari praticati nella regione del Nilo) e il viso che ritraeva quella di un Faraone.


UNA VITA DA COMPRIMARIA

Nella letteratura occidentale, la figura della Sfinge è stata spesso messa in ombra da quella di Edipo, immortalato dalla tragedia di Sofocle Edipo Re. Rari, e quasi tutti moderni, i testi in cui l’enigmatico mostro diventa protagonista: tra questi Edipo e la Sfinge, di Hugo von Hofmannsthal (1906), insolita riscrittura del mito alla luce delle teorie psicoanalitiche (che, con Carl Jung, vedono nella Sfinge l’archetipo della “Madre Terrificante”), e La macchina infernale di Jean Cocteau (1935), dramma teatrale in cui il mostro appare come una ingenua adolescente innamorata di Edipo. In campo pittorico, la Sfinge è stata più volte omaggiata dal francese Jean-Auguste-Dominique Ingres, a cui si è ispirato anche Francis Bacon per dipingere il suo Edipo e la Sfinge, olio su tela del 1983 dove i rapporti di forza tra l’eroe e la sua vittima paiono quasi capovolti.

domenica 1 aprile 2012

DIONISO (BACCO)


Misterioso e potente, ambiguo e minaccioso, Dioniso (identificato dai Romani con Bacco e dagli Etruschi con Fufluns) impersonava la forza generatrice della Terra, da cui dipendevano i raccolti dei campi e la stessa affermazione della civiltà. Era quindi un dio benefico che però, in quanto espressione delle forze primigenie del cosmo, aveva anche un lato oscuro, che si esprimeva nell’ebbrezza e nel delirio mistico.
Gli autori greci reputavano Dioniso il dio straniero per eccellenza, in quanto nella sua figura confluivano elementi ereditati dalla cultura asiatica e mediorientale. Eppure, già in epoca classica, la devozione che lo circondava era quasi pari a quella di Zeus. Una fama legata al suo ruolo di dio del vino, ma anche alla certezza che, tramite il suo culto, fosse possibile entrare in contatto con l’aldilà.

GENEALOGIA DI DIONISO

Le notizie sulla nascita di Dioniso sono intricate e spesso contrastanti. Tutti convengono sul nome del padre, Zeus, mentre la madre varia a seconda degli autori e delle tradizioni mitologiche. C’è chi la identifica con Demetra, la dea della Terra, chi con Persefone, la regina degli Inferi, e ancora chi con Io, una sacerdotessa di Argo consacrata ad Era. Tuttavia l’ipotesi più accreditata tra gli antichi mitologi resta quella che attribuisce la maternità di Dioniso a Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe, e di Armonia, nata dalla passione tra Ares e Afrodite. Amata con grande trasporto da Zeus, la bellissima Semele suscitò il desiderio di vendetta di Era, gelosissima moglie del signore degli dèi, che sotto mentite spoglie la indusse a chiedere al marito di mostrarsi a lei nella sua forma divina. Invano il re dell’Olimpo tentò di dissuaderla. Semele insistette e Zeus, che le aveva promesso di esaudire ogni suo desiderio, le si presentò come dio del fulmine, incenerendola. Il padre degli dèi, tuttavia, salvò dall’incendio il piccolo che Semele teneva in grembo, e che i fulmini del padre avevano reso immortale. Così Dioniso poté sopravvivere alla madre e più tardi, quando era adulto, la liberò dagli Inferi, conducendola con sé sull’Olimpo dove Semele assunse il nome di Tione.

NATO DUE VOLTE

Dioniso era soprannominato dagli antichi “il nato due volte”: egli, infatti, era venuto una prima volta alla luce subito dopo la morte della madre, quando Zeus, estraendolo prematuro dal corpo di Semele, se lo era cucito in una coscia e lo aveva portato con sé sull’Olimpo. Più tardi il dio nacque di nuovo, uscendo già formato dalla gamba del padre, e subito Ermes lo affidò alla sorella di Semele, Ino, affinché lo allevasse. Nel consegnarlo alla donna, Ermes si era raccomandato con lei che crescesse e vestisse il piccolo Dioniso come una bimba, perché solo così egli avrebbe potuto sottrarsi alla vendetta di Era, che odiava tutti i figli adulterini di Zeus. Lo scrupolo della donna nel seguire i consigli di Ermes non bastò tuttavia a sviare Era, che scoprì l’inganno e, incollerita, rese folli Ino e il marito Atamante. Preoccupato per la sorte del figlio, Zeus trasportò allora Dioniso sul monte Nisa, fuori dalla Grecia, dove uno stuolo di ninfe lo allevò amorevolmente fino all’adolescenza (ma alcune versioni del mito collocano questo episodio prima di quello di Ino). Una volta adulto, Dioniso scoprì l’arte della coltivazione e della preparazione del vino; Era però lo fece impazzire e il dio, fuori di sé, iniziò a vagare di regione in regione, fino a quando Rea, la Grande Madre, non lo purificò dalla follia e gli svelò il segreto della sua natura divina.

LICURGO SQUARTATO

Dopo l’incontro con Rea, Dioniso si recò in Tracia, dove Licurgo, il re della regione, litigò con lui e imprigionò alcune Baccanti, le donne che scortavano il suo carro regale. Per vendetta Dioniso fece impazzire il re, che si amputò una gamba scambiandola per una vite e poi fu squartato dai suoi sudditi, esasperati dalla interminabile carestia che affliggeva la regione.


VIAGGIO IN INDIA

Dalla Tracia Dioniso si spinse fino in India, paese che convertì al suo culto con una spedizione per metà militare e per metà religiosa. In seguito ritornò in Grecia, e ad Argo punì le donne che si rifiutavano di adorarlo obbligandole a percorrere le campagne muggendo come se fossero mucche.

LA MORTE DI PENTEO

Di ritorno dall’India, Dioniso passò anche da Tebe, sua città natale, dove introdusse i Baccanali, feste orgiastiche durante le quali l’intero popolo, ma soprattutto le donne, era posseduto da un delirio mistico. Penteo, re di Tebe, si oppose in ogni modo alla diffusione di questo culto, che riteneva pericoloso e immorale. Nulla però poté contro il volere del dio, che lo punì della sua ostilità facendolo smembrare vivo dalla madre Agave e da altre Baccanti in preda a estasi orgiastica.

IN OSTAGGIO DEI PIRATI

Nel corso del suo lungo pellegrinaggio attraverso la Grecia, Dioniso visse anche l’esperienza di essere fatto prigioniero dai pirati. Accadde quando il dio, volendo recarsi a Nasso, chiese a un gruppo di pirati tirreni di trasportarlo sull’isola. Questi finsero di accondiscendere alla richiesta di Dioniso ma poi, una volta a bordo, fecero rotta verso l’Asia, con l’intenzione di vendere l’illustre passeggero come schiavo. Il dio compì allora uno dei suoi più straordinari prodigi: dopo essersi tramutato in leone, trasformò l’albero e i remi della nave in serpenti, mentre un’immensa edera avvolgeva su ogni lato la nave e dal mare giungeva il suono di flauti invisibili. In preda al terrore, i pirati si gettarono a mare, e di certo vi sarebbero annegati se, impietosito, il dio non li avesse trasformati in delfini. Nacque così l’amicizia di questi mammiferi marini verso gli uomini: essi infatti sanno di essere stai graziati da Dioniso e, riconoscenti, cercano di sdebitarsi soccorrendo i naviganti in pericolo. Dopo questa dimostrazione di potenza, la divinità di Dioniso fu accettata ovunque ed egli poté ascendere all’Olimpo, avendo concluso con successo la missione di diffondere il proprio culto in tutta la Grecia.

L’INCONTRO A NASSO

La figura di Dioniso è legata a un episodio marginale, ma spesso raffigurato in pittura, della saga cretese del Minotauro. Dopo che Teseo ebbe ucciso l’uomo-toro, fuggì  da Creta insieme ad Arianna, la figlia di Minosse, re dell’isola. La fanciulla aveva aiutato l’eroe ateniese nell’impresa, fornendogli il filo con cui orientarsi nel Labirinto, e non poteva quindi più restare a Creta, dove tutti, a partire dal padre, l’avrebbero accusata di tradimento. Del resto era innamorata di Teseo e, prima di concedergli il suo aiuto, si era fatta promettere che, a cose fatte, l’avrebbe portata con sé in patria. I due, dunque, stavano navigando verso l’Attica quando, giunti davanti all’isola di Nasso, decisero di farvi scalo. Sbarcarono, e insieme al resto dell’equipaggio, vi si accamparono per la notte. Ma al risveglio Arianna scoprì che Teseo e tutti i suoi compagni erano già salpati. Disperata, tentò con ogni mezzo di richiamare la nave, di cui ancora scorgeva all’orizzonte le vele. Inutilmente. Senza più speranze, Arianna si accasciò piangendo nell’accampamento, e proprio in quell’istante sbucò dalla foresta un grande carro trainato da pantere e seguito da donne seminude. Era il corteo di Dioniso che, vista la fanciulla, se ne innamorò e le chiese di seguirlo sull’Olimpo. I due si sposarono davanti a Zeus e, come regalo di nozze, Dioniso donò alla moglie un diadema d’oro, opera del dio del fuoco Efesto. Il loro fu un matrimonio felice, allietato dalla nascita di quattro figli, tra cui Stafilo, uno degli Argonauti, e Toante, re di Lemno. Ma secondo alcune tradizioni mitologiche, Arianna tradì ripetutamente il marito, tanto che questi, esasperato, ordinò infine alla dea della caccia Artemide di ucciderla.


IL PROTETTORE DELLA TRAGEDIA

Già gli antichi collegavano a Dioniso l’arte tragica, della quale era considerato il protettore. In realtà, a parte Le Baccanti di Euripide, non sono molte le tragedie greche sul dio giunte fino a noi. La maggior parte degli storici concorda però nell’identificare i riti dionisiaci come l’ambito privilegiato in cui nacque la rappresentazione teatrale, nella forma particolare del dramma satiresco. Al di fuori del teatro, Dioniso compare (con il suo nome latino) nella Canzone di Bacco di Lorenzo de’ Medici, nel Bacco di Jean Cocteau, nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Anche le arti plastiche hanno spesso reso omaggio al dio, sulla scia di Michelangelo che, nel 1497, lo rappresentò come un giovincello infemminato. In pittura, infine, sono curiose le raffigurazioni del trionfo di Bacco di area fiamminga, dove spesso il dio ha l’aspetto di un grasso beone.