domenica 30 settembre 2012

ADE (PLUTONE)



La sua casa era l’Oltretomba, su cui regnava come un despota terrorizzando i morti con la sua oscura presenza. Ma la fama sinistra di Ade non lasciava tranquilli neppure i viventi, che per timore di evocarlo si astenevano persino di pronunciare il nome.
Tenebroso e maligno, Ade era ritenuto incapace di provare sentimenti di pietà o amore. Eppure proprio per amore aveva compiuto la sua impresa più celebre, rapendo la giovane Persefone per trasformarla nella sua sposa part-time.
In origine aveva sembianze animalesche, ma poi cominciò a essere raffigurato come un uomo, anzi come un sovrano, maestoso, misterioso, inafferrabile. Conosciuto anche con l’epiteto di Plutone, “il ricco”, era come tutti gli olimpi una divinità ambivalente: legata alla morte ma anche alla fertilità della terra e alle ricchezze del sottosuolo di cui, in quanto signore degli inferi, era padrone.

GENEALOGIA DI ADE

Nato dal matrimonio tra Crono e Rea, Ade (Plutone per i Romani) apparteneva al clan dominante dell’Olimpo, quello che, al termine della secolare guerra contro i Titani, si era impossessato del potere raccogliendosi attorno alla figura regale di Zeus. Di questo agguerritissimo gruppo di fratelli, che includeva anche le dee Demetra, Estia ed Era, Ade rappresentava senz’altro il personaggio più inafferrabile e tenebroso: per questo, quando dopo la Titanomachia si trovò a dover distribuire il comando dell’Universo tra i suoi familiari, Zeus non ebbe dubbi nell’assegnare ad Ade l’oscuro regno degli Inferi, tenendo per sé il dominio del cielo e attribuendo a Poseidone quello dei mari.
Geloso dei suoi possedimenti e delle sue prerogative, Ade trascorreva gran parte del tempo nella sua reggia sotterranea, condividendo gli oneri del potere con la moglie Persefone, una sua nipote, nata da una fugace relazione tra Demetra e Zeus. L’unione tra i due sovrani degli Inferi era ritenuta infeconda, anche se una tradizione assai dubbia faceva discendere da Ade e Persefone le Erinni, atroci dee della vendetta.

UN RE SENZA PIETÀ

Il timore che Ade suscitava nei Greci era inversamente proporzionale al numero di leggende che gli erano dedicate. Su di lui, infatti, il mito si dimostrava alquanto vago. Di sicuro si sapeva che era un sovrano spietato, insensibile alle richieste dei suoi sudditi di poter tornare sulla Terra, e che, nell’esercizio delle sue funzioni, era affiancato da un gruppo di mostruosi servitori – tra cui Cerbero e Caronte – che eseguivano con brutalità gli ordini da lui impartiti.
Il dio dei morti, a quanto si diceva, era poco interessato alle faccende terrene, e gli stessi litigi e giochi di potere dei suoi fratelli sull’Olimpo lo lasciavano indifferente. Raramente si allontanava dal suo regno e, se proprio vi era costretto, vi faceva ritorno il più in fretta possibile. Non aveva possedimenti sulla Terra, tranne, secondo alcuni, una mandria di bestiame sull’isola Erizia. In compenso il suo status di sovrano del sottosuolo gli assicurava il possesso di tutte le gemme preziose e delle ricche miniere nascoste sotto la crosta terrestre.
La sua vita sentimentale, come si addice a un sovrano dei morti, era piuttosto morigerata. A parte un paio di abortite avventure extraconiugali, egli non aveva avuto altri amori che la moglie Persefone, rapita in Sicilia quando era poco più di una bambina, e poi costretta con l’inganno a restare negli Inferi. I due vivevano insieme sei mesi all’anno, durante i quali Persefone adempiva con efficienza ai suoi doveri di regina dei morti. Nel resto dell’anno, invece, Persefone (su intercessione di Zeus) tornava tra i viventi, e la sua ricomparsa sulla Terra veniva festeggiata dalla madre Demetra, dea dell’agricoltura, propiziando la primavera.
Nel mondo greco il culto di Ade era, al di fuori dei culti misterici, relativamente marginale. Sull'isola di Samotracia, nell’Egeo, sorgeva per esempio un grande tempio dove una divinità identificata con Ade (Axiokersos) veniva venerata insieme ad altri dèi. Al signore dei morti era inoltre dedicato, secondo il geografo Pausania, un santuario ai piedi del monte Mente, in Elide.

IL RIFIUTO DI ZEUS

Secondo alcune leggende, Ade, prima di rapire Persefone, ne aveva chiesto la mano al padre Zeus, il quale però gliela negò, non volendo apparire agli occhi dell’ex amante Demetra come il responsabile dell’infelicità della figlia.


TRADIMENTI MANCATI

Malgrado l’amore per Persefone, Ade tentò per due volte di tradirla: la prima con Minta, una ninfa trasformata da Persefone nell’omonima erba aromatica; la seconda con una figlia di Oceano, Leuce, che il dio avrebbe violentata se Persefone, per salvarla, non l’avesse mutata in un pioppo bianco.

L’ELMO MIRACOLOSO

Ade partecipò alla lotta contro i Titani, e i Ciclopi gli fornirono un elmo che, indossato, lo rendeva invisibile. Grazie a questo miracoloso manufatto, portato in seguito anche da Perseo e Atena, il dio degli Inferi poté introdursi senza essere visto nella reggia di Crono e rubargli le armi.

FERITO DA ERACLE

A parte il rapimento di Persefone, Ade compare solo in un unico altro grande mito. Lo narra Omero nell’Iliade, dove si racconta che il dio dei morti, quando Eracle scese negli Inferi per catturare Cerbero, tentò di bloccarlo alle porte del proprio regno. Ma l’eroe greco lo trafisse a una spalla con una freccia e Ade, dolorante, dovette essere portato in tutta fretta sull’Olimpo, dove fu rimesso in piedi da un unguento miracoloso di Peana, il dio guaritore. Secondo una diversa versione dello stesso mito, Ade, invece, sarebbe stato addirittura ucciso da Eracle, che lo schiacciò sotto un grosso masso.

LA STREGA E LA REGINA

Quando giungevano nell’Oltretomba, le anime dei morti trovavano ad attenderle, oltre ai demoni infernali, anche due dee dalla fama tutt’altro che rassicurante. La più temuta era ovviamente Persefone, nota anche come Core in Attica e Proserpina a Roma: costretta suo malgrado a passare metà dell’anno sottoterra, la dea sfogava il suo rancore accanendosi sulle anime dei defunti, verso le quali, spesso, si comportava ancora più crudelmente di Ade. Su di lei, come sul marito, le leggende erano piuttosto scarse: si diceva comunque che fosse stata al fianco del marito quando Orfeo si presentò da Ade per chiedergli indietro la moglie Euridice. Ed era nota la sua infelice passione per il bellissimo Adone, che Afrodite le aveva affidato ancora neonato e per il quale, poi, aveva perso la testa.
Al suo fianco si incontrava spesso un’altra divinità femminile, inquietante e misteriosa già nell’aspetto. Si chiamava Ecate e, come lasciava intendere il suo nomignolo – la dea triplice – era dotata di tre corpi e tre teste (talvolta di animale).
Amica di Persefone sin dall’epoca del suo rapimento – era stata lei a confermare a Demetra il ratto della figlia – Ecate era venerata dai Greci come la dea degli incantesimi e della stregoneria. Si diceva che durante la notte spedisse sulla Terra ogni sorta di demoni, che il suo arrivo fosse annunciato dal mugolio dei cani e che amasse soggiornare in coincidenza dei crocevia, controllando con le sue tre teste ogni direzione. Era anche ritenuta una dea psicopompa, che viaggiava liberamente tra il mondo degli uomini e quello dei morti guidando le anime verso il loro destino.
Ad Atene, alla fine di ogni mese, era abitudine lasciarle dei piatti di cibo agli incroci delle strade: il contenuto veniva poi consumato dai poveri della città.


TROPPO CUPO PER ESSERE AMATO

Ade, poi divenuto Plutone presso i Romani, era un dio troppo estraneo all’escatologia cristiana per interessare gli autori medievali, e troppo cupo per affascinare gli Umanisti. La sua fortuna nell’arte inizia dunque solo a metà Cinquecento, anche se già in precedenza lo si trova citato nell’Inferno di Dante (dove tuttavia pare indistinguibile dal dio della ricchezza Pluto) e nell’Orfeo di Angelo Poliziano. A partire dal tardo Rinascimento, il ratto di Proserpina diventa invece un topos  ricorrente in tutte le forme d’arte: in pittura lo si ritrova, per esempio, nei dipinti di Luca Giordano, Pieter Paul Rubens e William Turner, in scultura nel celebre gruppo marmoreo del Bernini, in musica nell’opera di Igor Stravinskij, in letteratura in un dramma di Goethe. Nella cultura contemporanea Ade è un personaggio molto amato dagli autori fantasy e di fumetti.

giovedì 13 settembre 2012

LADONE



In quasi tutte  le mitologie antiche c’è la figura di un drago che custodisce immensi tesori. Nel mondo greco, questo drago è Ladone, il guardiano dell’albero dai pomi d’oro nascosto nel giardino  delle ninfe Esperidi. Un mostro per tanti aspetti “minore”, ma in ogni caso legato a uno dei cicli-chiave della mitologia greca: quello che narra le dodici fatiche del grande Eracle.
Per alcuni autori era un serpente a cento teste, per altri un drago; altri ancora lo descrivevano come un rettile malefico e astuto. Su un solo punto tutti erano d’accordo: Ladone era una creatura maligna e insidiosa, dotata di poteri magici ricevuti in dono da Era, la sua protettrice.

GENEALOGIA DI LADONE

Esistono due diverse tradizioni genealogiche riguardo alla nascita di Ladone. La prima individua i genitori del drago nei due mostri da cui discendono tutti gli esseri più orribili del mito greco: il terrificante Tifone, un gigante alato con cento teste e due spire di serpenti al posto dei piedi, e la donna-vipera Echidna, con un busto da donna innestato su una coda da rettile. Dall’unione di questi due esseri immondi ebbe origine Ladone, che poi fu adottato da Era, la moglie di Zeus, e trasformato nel custode dei più preziosi frutti del mito greco. Contrapposta a questa mappa genealogica ce n’era una seconda che, curiosamente, faceva discendere Ladone dal mare. Secondo questa versione minore del mito, il drago delle Esperidi sarebbe infatti figlio di Forco (o Forcide) e Ceto, una coppia di amanti-fratelli collocati dalla tradizione greca tra le divinità marine primordiali. Nati dalle nozze tra Ponto e Gaia – il Mare e la Terra – Forco e Ceto erano ritenuti i genitori, oltre che di Ladone, anche di molti altri mostri mitologici, tra cui Echidna, le Gorgoni e le bellissime ma insidiose ninfe Esperidi.

I POMI PROIBITI

La figura di Ladone compare, per di più marginalmente, solo nell’undicesima fatica di Eracle. L’eroe, chiamato a espiare attraverso queste dodici imprese l’omicidio della moglie Megara, uccisa in un raptus di follia, era appena rientrato a Micene dopo la cattura dei buoi di Gerone quando Euristeo, re della città, gli ordinò di portargli i pomi d’oro nascosti nel Giardino delle Esperidi. Di questo luogo incantato, sorvegliato da un drago che non dormiva mai, nessuno conosceva l’esatta collocazione. Trovarlo fu perciò difficile e faticoso, e forse Eracle non ci sarebbe riuscito senza l’aiuto del dio marino Nereo il quale, pur tentando di sfuggirgli, gli rivelò infine la regione – forse a ovest della Libia – dove si trovava il giardino.
Iniziò così per Eracle un interminabile viaggio, costellato da molte e mirabolanti imprese: l’eroe liberò tra l’altro le coste libiche dal feroce gigante Anteo e pose termine al tormento di Prometeo, incatenato a una roccia dove, per volere di Zeus, un’aquila gli divorava quotidianamente il fegato. Proprio Prometeo, grato a Eracle per averlo liberato, consigliò all’eroe – se voleva davvero i pomi – di non recarsi personalmente nel Giardino delle Esperidi, ma di affidare il compito a suo fratello, il Titano Atlante. Eracle accolse il suggerimento e, recatosi dal gigante, gli offrì, in cambio dell’aiuto richiesto, di reggere fino al suo ritorno la volta celeste che Atlante, per ordine di Zeus, doveva portare giorno e notte sulle spalle. Atlante accettò e, come previsto da Prometeo, non ebbe difficoltà a impossessarsi dei pomi; ma, una volta tornato, si rifiutò di consegnarli a Eracle, perché non voleva riprendere su di sé il peso del cielo. Così Eracle, per non restare intrappolato in quella scomoda situazione, dovette ingannare Atlante, convincendolo con una scusa a rimettersi per qualche istante il cielo sulle spalle, salvo poi fuggire con i pomi d’oro che il Titano, ingenuamente, aveva posato per terra.
Una diversa versione del mito sostiene invece che Eracle si recò personalmente nel Giardino delle Esperidi, uccise o addormentò Ladone e si impadronì dei pomi, senza alcun aiuto da parte di Atlante.

IL FIGLIO DI GAIA, LA MADRE TERRA

Una delle imprese più celebri compiute da Eracle durante l’undicesima fatica fu l’uccisione del crudele Anteo, un gigante libico dai poteri straordinari. Nato dall’unione tra Gaia e Poseidone, Anteo era pressoché  invincibile finché restava in contatto con sua madre, la Terra; ma Eracle riuscì a sollevarlo per il tronco e, tenendolo sollevato, lo strinse fino a soffocarlo.


VITTIMA SACRIFICALE

Durante la marcia di avvicinamento al Giardino delle Esperidi, Eracle passò anche dall’Egitto, dove il crudele re Busiride aveva l’abitudine di sacrificare a Zeus gli stranieri che passavano dal suo paese. Anche Eracle rischiò di restare vittima della barbara usanza, ma, condotto all’altare con le mani e i piedi legati, si liberò dai lacci e uccise Busiride.

IL DONO DI ATENA

Una volta ottenuti i pomi d’oro, Euristeo, cugino senza qualità di Eracle, non mostrò alcun interesse per i preziosi frutti, e li restituì all’eroe greco.
Eracle poté così donarli ad Atena, che subito li riportò nel Giardino delle Esperidi, dove, secondo la legge divina, erano destinati a restare per l’eternità.

LA COSTELLAZIONE DEL SERPENTE

Secondo una leggenda ellenistica, Era, inconsolabile per la morte di Ladone, tentò di perpetuarne il ricordo innalzandolo in cielo sotto forma di astro. Nacque così la costellazione del Serpente, ben visibile nelle notti estive dalle coste greche. Dal canto loro le Esperidi, disperate per non aver saputo proteggere i frutti che avevano ricevuto in custodia, si trasformarono in alberi (un pioppo, un olmo e un salice), sotto le cui fronde si riposò Giasone quando, nel corso della sua ricerca del Vello d’Oro, approdò con gli Argonauti nel mitico giardino.

L’ORA DEL DRAGO

Terrificante, insonne, gigantesco: Ladone non è che una delle infinite forme che il drago assume nella fantasia dei Greci. Simile a lui, quasi un fratello-gemello, c’è per esempio il drago del Vello d’Oro, un mostro senza nome chiamato a sorvegliare la preziosa pelle dell’ariete magico donato da Ermes a Nefele, moglie di Atamante. Un ostacolo apparentemente invalicabile per qualsiasi essere umano, ma non per Giasone, che, secondo alcuni, per recuperare il Vello d’Oro dovette calarsi nello stomaco del mostro, proprio come il biblico Giona nel ventre della balena.
Un custode di tesori, sia pure di diversa natura, è anche Pitone, il rettile che Gaia, la Madre Terra, nella notte dei tempi pose a guardia del suo oracolo a Delfi. Apollo lo sconfisse in una mitica battaglia e in tal modo strappò a Gaia il controllo dell’oracolo, che divenne così la voce della sua volontà sulla Terra.
Altri draghi greci paiono invece, più che custodi di tesori intangibili, espressioni di una natura spaventosa e matrigna. Così l’Idra di Lerna, uccisa da Eracle con il sostegno del nipote Iolao, sembra quadi un’emanazione venefica della palude maleodorante in cui abita. E il mostro marino decapitato da Perseo per liberare Andromeda assomiglia, più che a un drago, a uno dei giganteschi pesci (forse balene) che, nell’immaginario degli antichi, dovevano popolare i fondali marini. Tutti draghi, quelli del mito greco, che comunque, pur nelle loro differenze, hanno un aspetto in comune: la loro esistenza pare avere come unico scopo quello di far risaltare la grandezza dell’eroe che, vincendoli, viene elevato al rango di “salvatore” del mondo.
Un aspetto che accomuna i mostri greci e quelli di altre mitologie, orientali o nordiche che siano: dal drago marino Tiamat, intrappolato in una rete e poi ucciso dal babilonese Marduk, al velenoso Jormungandr, sconfitto, ma al prezzo della vita, dal dio norreno del tuono Thor.


SUGGESTIONI INDIRETTE

Le tracce lasciate da Ladone nell’arte postclassica sono interamente legate al successo iconografico del mito di Eracle. Succede così che in opere dedicate all’eroe trovi spazio anche il drago, spesso raffigurato come un cimelio di caccia sotto i piedi del suo uccisore. Altre volte, invece, il soggetto del dipinto è la lotta tra l’eroe e il mostro – come in un olio su tela di Juan Bautista Martinez del Mazo – oppure il contesto mitologico in cui tale scontro è avvenuto. Significativo in tal senso un dipinto di Frederic Leighton, dove il Giardino delle Esperidi diventa una sorta di Paradiso Terrestre con Ladone nella parte del serpente tentatore. È indubbio, comunque, che l’influenza più duratura della figura di Ladone sia indiretta, e vada rintracciata nelle centinaia di quadri su San Giorgio e il drago che, in un modo o nell’altro, risentono delle suggestioni del mito.