martedì 31 luglio 2012

DAFNE


Il suo nome, in greco antico, significava “alloro”, e proprio in una pianta di alloro fu trasformata dalla madre Gaia quando Apollo, invaghitosi di lei, tentò di violentarla. Una metamorfosi che, pur imprigionando la ninfa Dafne entro una corteccia, per paradosso le restituiva la libertà di non soggiacere alla passione d’amore. Una servitù ben peggiore per chi, come lei, nella logica del mito impersonava la freschezza, la grazia e l’inafferrabilità delle forze primigenie della natura.
Stazio, Bernini, Monteverdi, D’Annunzio…appartengono a tutte le epoche, e a ogni tipo d’arte, gli autori che hanno amato il mito di Dafne, un racconto ellenistico reso celebre da Ovidio con le sue Metamorfosi, ma poi penetrato così profondamente nella cultura occidentale da aver fatto di Dafne una sorta di archetipo femminile: la figura dell’eroina capace, pur nella disgrazia, di difendere la propria indipendenza e libertà di scelta.

GENEALOGIA DI DAFNE

Come tutte le Ninfe, Dafne è una divinità femminile che nasce dall’unione tra due forze strettamente legate al mondo vegetale: la Madre Terra Gaia, che scaturì direttamente dal Caos e creò, da sola o con l’aiuto del marito Urano, tutti gli elementi primordiali del cosmo, e una divinità fluviale di incerta identità. Alcuni la individuano in Ladone, dio dell’omonimo fiume in Arcadia e padre anche di una seconda ninfa, Metope, generata con Stinfalide. Per altri, invece, il padre di Dafne avrebbe il volto di Peneo, divinità tessala che origino il corso d’acqua conosciuto con il suo stesso nome. Chiunque sia il padre di Dafne, è certo comunque che il mito gli assegna, nella storia della figlia, un ruolo di secondo piano. Ben più rilevante la parte interpretata da Artemide, la dea dei boschi, che per Dafne fu una sorta di seconda madre: la accolse infatti nel suo corteo regale, legandola a sé con il voto di castità richiesto a tutte le sue ancelle. Fu per tenere fede alla promessa fatta ad Artemide che Dafne respinse il corteggiamento di Apollo, reso cieco di passione da una freccia dispettosa di Eros. E sempre per fedeltà alla dea, di cui secondo alcuni autori era la ninfa preferita, Dafne preferì trasformarsi in una forma vegetale piuttosto che permettere ad Apollo di violarla.

STORIE DI NINFE

La versione ovidiana del mito di Dafne, sentimentale e drammatica al tempo stesso, sembra combinare due aspetti ricorrenti nei racconti di ninfe: da una parte l’ammiccamento erotico, legato alla natura stessa di queste divinità minori, giovani fanciulle che personificano la fecondità e la grazia del mondo vegetale, dall’altra la componente tragica, che invece sembra sottolineare la fragilità quasi umana delle ninfe, non a caso ritenute (salvo rarissime eccezioni) creature mortali. Questi due aspetti costituiscono l’ossatura della maggior parte delle leggende greche dedicate alle ninfe, e in particolare di due tra le più celebri: il mito della bella Eco, che per amore di Narciso si consumò al punto da ridursi alla sua sola voce, e quello della ninfa Callisto, posseduta con l’inganno da Zeus e, per questo, punita dalla spietata Artemide con un incantesimo che la trasformò in orsa.
Ci sono però anche miti in cui alle ninfe vengono attribuiti connotati materni, come tutti quelli dove fanno da nutrici a eroi o dèi (per esempio Dioniso). E altri ancora in cui, invece, assumono tratti quasi minacciosi, alla stregua di certe streghe del folclore nordico: è celebre, per esempio, l’episodio del giovane Ila, fanciullo bellissimo che un gruppo di ninfe acquatiche, innamorate, trascinarono con sé in una sorgente annegandolo.
Al di là di queste varianti più o meno horror dell’immaginario mitologico, le ninfe erano comunque generalmente percepite dai Greci come entità benevole, emanazioni della natura che popolavano l’ambiente vegetale sacralizzandolo. Forse per questo, ogni ambito del mondo naturale aveva le sue: così esistevano le ninfe del mare, quelle delle acque e delle grotte, delle montagne e dei boschi. C’erano persino le ninfe del cielo, che si chiamavano Pleiadi come la costellazione nota già ai tempi di Omero.

DRIADI E OREADI

Tra le ninfe terrestri, le più note erano le Driadi, che morivano quando seccava l’albero in cui abitavano, e le Oreadi, creature delle montagne e delle grotte.


SIGNORE DELLE ACQUE

Le ninfe del mare comprendevano le Oceanine, che vivevano sui fondali dell’Oceano, e le Nereidi, legate al Mar Mediterraneo. Le Naiadi, invece, erano le ninfe d’acqua dolce, creature dai poteri meravigliosi (tra cui quello di ispirare i poeti) che popolavano fonti, laghi, fiumi, ruscelli, cascate.

SETTE STELLE

Figlie di Atlante e di Pleione, le Pleiadi erano sette sorelle che facevano parte del corteo regale di Artemide. Un giorno che si trovavano in compagnia della madre, un terribile cacciatore, Orione, le vide e se ne innamorò. Per cinque anni le Pleiadi fuggirono il loro persecutore, finché, stremate, non implorarono gli dèi di salvarle. Zeus, allora, le trasformò in colombe, che volarono in cielo e divennero le sette stelle che formano l’omonima costellazione.

LA DEA DEL CASO

C’era una ninfa che non viveva sugli alberi né sulle montagne, e tantomeno nei fondali dei fiumi o dei mari. Era Tyche, la dea del Caso, una creatura inafferrabile da cui dipendevano le sorti dei singoli individui e degli Stati. Identificata dal poeta Esiodo con una delle Oceanine (ma Pindaro la considerava la più potente delle Parche), apparteneva a quel gruppo di forze primigenie generatesi prima della comparsa degli Olimpi, e poi sopravvissute in forma diversa all’ascesa di Zeus. Il suo ruolo, ancora marginale ai tempi di Omero (che nei suoi poemi non vi fa mai cenno), crebbe a partire dal IV secolo a.C., tanto che ai capricci di Tyche cominciarono ad essere attribuite le fortune e le rovine delle varie poleis. Non a caso, nelle opere d’epoca ellenistica, la dea viene raffigurata come una giovane donna che reca sul capo il polos, una corona turrita simboleggiante le mura cittadine.

CAMBI DI STATO

La trasformazione in alloro del corpo di Dafne è la metamorfosi per antonomasia del mito greco. Non è però l’unica né la più sorprendente. Assai comuni, nella poesia antica, sono per esempio le “mutazioni” degli dèi, che modificano temporaneamente il proprio aspetto per comunicare con gli uomini. Maestro di questi camaleontismi è Zeus, che nei suoi amori “umani” pare divertirsi ad assumere sembianze ogni volta diverse: di un toro per amare Europa, di un cigno per sedurre Leda, di un’aquila per rapire Ganimede. Ma non meno abili nell’arte della trasformazione si rivelano Poseidone, che si accoppia a Melanto in forma di delfino, e Afrodite, che inganna Psiche presentandosi a lei nei panni di una vecchia.
Accanto a queste metamorfosi temporanee, ci sono poi quelle definitive, che colpiscono generalmente gli esseri umani. A volerle sono di solito gli dèì, che le decidono per i motivi più svariati: per donare a giovani sfortunati un’immortalità postuma (come nel caso di Giacinto, trasformato post mortem nel fiore corrispondente); per punire gli uomini delle loro colpe (come nel mito di Licaone, mutato in lupo per aver offerto a Zeus un piatto di carne umana); per sottrarre gli esseri umani a un destino crudele. A quest’ultimo filone appartengono, per esempio, la metamorfosi di Dafne e quella delle Eliadi, figlie del dio del sole Elio: inconsolabili per la morte del fratello Fetonte, le due sorelle piansero così a lungo la sua scomparsa che il dio fluviale Eridano, commosso, trasformò le fanciulle in pioppi e le loro lacrime in ambra. Tutte queste metamorfosi, nei miti greci, trasmettono l’idea di un universo fluido, dove ogni cosa può mutarsi nelle altre e non esiste linea di demarcazione netta tra piante e animali, uomini e cose. Un mondo percorso da segreti legami, sottili fili rossi che collegano tra loro ambiti naturali diversi favorendo continui trapassi tra regno umano, animale e vegetale.


UN SOGGETTO PER TUTTE LE ARTI

Un episodio visivamente suggestivo come la metamorfosi di Dafne non poteva sfuggire all’attenzione degli artisti postclassici. Così, a partire dal ‘500, furono molti i pittori e gli scultori che provarono a raffigurare questo soggetto: tra i più famosi, Jacopo Tintoretto, Gian Lorenzo Bernini, Nicolas Poussin, Giambattista Tiepolo e William Turner. La letteratura, dal canto suo, iniziò a occuparsi del mito ovidiano già nel Medioevo, con Francesco Petrarca: il poeta, nel Canzoniere, paragona se stesso ad Apollo, respinto dalla propria amata e rimasto con il solo alloro (della poesia). In seguito, la leggenda di Dafne comparve tra l’altro nelle Egloghe boscarecce di Giovan Battista Marino e nel poemetto L’Oleandro di Gabriele D’Annunzio. Infine la musica: Dafne dà il titolo all’omonimo “dramma in musica” musicato da Jacopo Peri e Giulio Caccini su testi di Ottavio Rinuccini, ed è la protagonista di un’opera in un solo atto composta da Richard Strauss.


domenica 1 luglio 2012

MEGERA


Nella religione pagana le divinità potevano essere spaventose e crudeli come mostri. È il caso di Megera, una delle tre Erinni (le Furie romane), ripugnanti geni alati con serpenti intrecciati ai capelli e occhi stillanti gocce di sangue. Una divinità incaricata, insieme alle sorelle, di punire i colpevoli di crimini violenti, ma così spietata nell’adempiere alla propria missione di vendicatrice da essere temuta dagli onesti non meno che dai malvagi.
Spesso venivano paragonate a cagne, perché inseguivano e perseguitavano gli assassini fino a che questi, esausti o folli, non si arrendevano alla loro vendetta. Ma forse, più che alle cagne, le Erinni assomigliavano a demoni infernali, anch’essi chiamati a punire i crimini più gravi impedendo che la vita collettiva degenerasse nel caos.

GENEALOGIA DELLE ERINNI

Conosciute anche con l’ironico soprannome di Eumenidi (le “Benevole”), le tre Erinni appartenevano alla più antica generazione di divinità greche, quella preesistente all’ascesa di Zeus e degli altri dèi Olimpi. La loro nascita veniva pertanto collocata all’origine stessa del Cosmo, quando gli elementi primordiali dell’Universo, GAIA, la Madre Terra, URANO, il Cielo, PONTO, il Mare, si accoppiarono tra loro per dare vita al mondo conosciuto. A generare le Erinni, tuttavia, non fu un atto di amore bensì di violenza: Megera, Aletto e Tisifone, così si chiamavano le tre sorelle, erano infatti il frutto dell’evirazione di Urano da parte del figlio Crono, stanco della prepotenza paterna e istigato dalla madre Gaia a ribellarsi. Dallo squarcio prodotto nel ventre di Urano dalla falce di Crono sgorgò un fiume di sangue, che cadde sulla superficie terrestre e la fecondò. Nacquero così le Erinni, sulle quali neppure Zeus aveva autorità e che vennero presto venerate come dee della vendetta.

LE TRE SORELLE

Sin dai tempi di Omero, le Erinni sono rappresentate come implacabili vendicatrici delle ingiustizie e dei torti umani. Annidate nelle oscurità del Tartaro, sono creature primitive e colleriche, che si accaniscono contro le loro vittime accecandone la mente con il rimorso e la follia. Il loro habitat naturale è la Notte, da cui, secondo alcuni, discendono. Ma possono agire anche di giorno, se ciò serve per portare a compimento la loro vendetta. Il ruolo punitivo delle Erinni si esercita soprattutto nei confronti degli assassini e dei violenti; ma le tre dee non mancano di castigare anche colpe meno gravi, come la disobbedienza verso i genitori, la sopraffazione dei deboli e degli anziani, lo spergiuro, la violazione delle sacre leggi dell’ospitalità, la mancanza di pietà verso i supplici. Sono inoltre implacabili verso quanti si macchiano di hybris, un peccato di superbia che fa scordare all’uomo la sua condizione mortale spingendolo a misurarsi con gli dèi. Coprotagoniste di decine di miti greci e latini, le Erinni hanno un ruolo centrale soprattutto nel ciclo di Agamennone, il re acheo colpevole di avere sacrificato la figlia Ifigenia pur di placare la dea Artemide e consentire la partenza della flotta greca verso Troia. A seguito di questo delitto (sventato dalla stessa Artemide), le Erinni indussero Clitennestra a uccidere il marito, poi la punirono per mano del figlio Oreste e infine perseguitarono quest’ultimo in quanto assassino della madre. Un’analoga catena di disgrazie colpisce Edipo, vittima di una maledizione provocata da un crimine commesso dal padre Laio ben prima della sua nascita.
A lungo ritenute divinità terrene, le Erinni, in epoca tarda, cominciarono a essere concepite come creature infernali, che perseguitavano i colpevoli anche dopo la morte, torturandoli nel Tartaro con le loro fruste e atterrendoli con i sibili dei serpenti intrecciati ai loro capelli.


COMPLICI NEL DELITTO

Quando Clitennestra, insieme all’amante Egisto, uccise il marito Agamennone, Oreste fu salvato dalla sorella Elettra, che lo inviò in segreto presso Strofio, re della Focide. Lì l’eroe rimase fino alla maggiore età, quando tornò ad Argo e, con l’aiuto della sorella, vendicò la morte del padre.

LA “DEA TRIPLICE”

Sono tre, ma di fatto agiscono come un’unica divinità, quasi costituissero un’entità indistinta e indivisibile. L’archetipo della “dea triplice” (un termine divulgato dallo scrittore inglese Robert Graves), ricorrente in tutte le culture indoeuropee, torna spesso anche nella mitologia greco-romana. Oltre alle Erinni, ricadono sotto questo modello anche le Moire o Parche, personificazioni del destino umano assegnato a ciascun individuo. Un terzetto di sorelle che, pur avendo nomi diversi (Atropo, Cloto e Lachesi), assolvono tutte insieme allo stesso compito: fare in modo che ogni essere umano abbia in sorte la sua moira, cioè la parte di vita, felicità, sfortuna concessagli dal Fato. Che poi, nell’ambito di questa funzione, ognuna delle Parche svolga mansioni diverse (Cloto fila la tela della vita, Lachesi la avvolge sul fuso corrispondente, Atropo la taglia quando è giunta al termine) è meno rilevante del fatto che alle tre figlie di Zeus e Temi non sia consentito agire separatamente, poiché solo la loro unione garantisce il pieno rispetto di quella legge del destino che neppure gli dèi possono trasgredire.
Al pari delle Moire, anche le Ore, nate come le loro sorelle dall’unione tra Zeus e Temi, non sono concepibili come entità distinte. Per certi aspetti, anzi, sono persino più simbiotiche delle Moire, in quanto, a differenza di queste ultime, non rappresentano individualità definite bensì mere personificazioni di concetti astratti: la Giustizia, il Diritto e la Pace secondo Esiodo; la Fioritura primaverile, il Rigoglio estivo e il Raccolto autunnale secondo autori più antichi. Quanto ai loro compiti, variano di epoca in epoca: inizialmente venerate come dee delle Stagioni e del ciclo naturale della vegetazione, furono in seguito associate alle leggi morali, di cui erano le guardiane. Solo ai tempi dei Romani furono aumentate di numero e iniziarono a essere associate allo scorrere del tempo: gli autori latini ne contavano dodici, quante le ore del giorno, tutte danzanti attorno al carro del Sole.


SULLA SCIA DI ESCHILO

La più celebre rappresentazione delle Erinni nel mondo greco è costituita dalle Eumenidi di Eschilo. In questa tragedia, ultimo atto della trilogia Orestea, viene narrata la persecuzione delle tre dee nei confronti di Oreste, colpevole dell’omicidio di sua madre. Da questo modello, che riprende probabilmente suggestioni di molti secoli precedenti, sono derivate tutte le rielaborazioni postclassiche delle figure delle Erinni: da quella dantesca, che colloca le Furie a guardia della città infernale di Dite, alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, dove l’orrenda Aletto scatena la ribellione nel campo dei cristiani. Le Erinni compaiono anche nel Faust di Goethe, nell’Elettra di Giraudoux, nel romanzo Furia di Salman Rushdie. Sono inoltre raffigurate in dipinti di Johann Heinrich e Arnold Bocklin, oltre che celebrate nell’opera Ippolito e Aricia di Jean-Philippe Rameau.