domenica 30 dicembre 2012

AGAVE



Era l’unica tra le Baccanti a essere conosciuta per nome. Forse perché, anche per una mitologia dalle tinte forti come  quella greca, una madre che decapita e sbrana il proprio figlio restava un fatto eccezionale. Un evento fuori dalle regole come tutta la vita di Agave, figlia di Cadmo fondatore di Tebe, sorella di Semele amante di Zeus, devota di un dio, Dioniso, che alle proprie adepte chiedeva di abbandonarsi a lui in una sorta di mistico delirio.
L’intera vita di Agave può essere riassunta in un solo gesto: quello con cui, in preda a furore mistico, scambiò suo figlio Penteo per una belva feroce e lo divorò. Un contrappasso crudele per la donna che, proprio in nome di Penteo, era giunta a diffamare il ricordo della sorella Semele. Una punizione inflittale dal dio dell’ebbrezza Dioniso (figlio di Semele) per vendicare la madre e affermare la propria supremazia su qualunque vincolo di sangue.


GENEALOGIA DI AGAVE


Nella famiglia di Agave erano parecchi i personaggi mitologici di rilievo. A partire dal padre Cadmo, leggendario eroe le cui vicende si intrecciavano con quelle della fondazione di Tebe. La madre di Agave era invece Armonia, figlia di Ares e di Afrodite, soprannominata “l’unificatrice”, poiché tra i suoi attributi divini vi era quello di appianare i conflitti. Il matrimonio tra Cadmo e Armonia era ritenuto dagli antichi un modello di concordia, e aveva generato numerose figlie. Tra queste, oltre ad Agave, anche Autonoe e Semele: la prima era nota soprattutto in quanto madre di Atteone, leggendario cacciatore trasformato da Artemide in cervo. La seconda veniva ricordata per la sua relazione con Zeus, che l’aveva amata così tanto da accondiscendere alla più folle delle sue richieste: poterlo osservare, lei che era solo un’umana, in tutta la sua potenza divina. Invano Zeus mise in guardia la fanciulla dall’insensatezza di tale desiderio. Semele insistette e Zeus, che non voleva contrariarla, le apparve come dio dei fulmini carbonizzandola. Il padre degli dèi, tuttavia, riuscì a salvare dall’incendio il piccolo che la fanciulla portava in grembo, e che i fulmini paterni avevano reso immortale: era Dioniso, futuro dio dell’ebbrezza, che sarebbe asceso all’Olimpo dopo una dolorosa peregrinazione sulla Terra.


INVASATE DA DIONISO


Agave era la più celebre tra le Baccanti, le seguaci del culto di Dioniso (Bacco nel mondo latino), dio del vino, dell’estasi e della liberazione dei sensi. Note anche come Menadi (“le folli”) o Bistonidi (dal nome di una popolazione della Tracia molto devota al dio), le Baccanti erano in genere raffigurate nude, o coperte solo con pelli di daino che ne celavano a malapena la nudità.
Sul capo esibivano una corona d’edera, tra le mani stringevano il tirso, un bastone di legno anch’esso sormontato d’edera. Spesso portavano con sé strumenti musicali: il flauto a due canne, con cui scandivano le loro danze, e il tamburo.
Inseparabili dal dio Dioniso, di cui, insieme ai Satiri, costituivano al tempo stesso la compagnia e la scorta, giravano al suo seguito per le regioni della Grecia, dissetandosi alle fonti di montagna (da cui, nel loro mistico delirio, immaginavano di trarre miele e latte) e nutrendosi con ciò che capitava loro sotto mano.
Il loro legame con la natura era fortissimo: non solo perché, emblematicamente, ne rappresentavano il lato più selvaggio e incontrollabile, ma anche perché, su di essa, esercitavano un potere reale: non a caso, nell’antica Grecia era abituale vedere raffigurazioni di Baccanti che cavalcavano pantere oppure accarezzavano lupacchiotti e altre belve feroci.
La fama delle Menadi era naturalmente legata anche a quella dei Baccanali, le feste in onore di Dioniso che si tenevano nelle città dedite al suo culto. I Baccanali rappresentavano la prova più tangibile della capacità del dio di spezzare i tabù sociali e favorire il libero dispiegarsi degli istinti: durante queste feste, infatti, l’intero popolo (ma soprattutto le donne) veniva invaso da un autentico furore religioso, e percorreva le campagne scatenandosi nelle danze, lanciando grida sfrenate, abbandonandosi a ogni tipo di licenziosità.
Il culmine della cerimonia coincideva con il pasto rituale, durante il quale le sacerdotesse di Dioniso (le Menadi, appunto) nel tentativo di assimilare il dio, dilaniavano un animale e lo divoravano vivo.


STORIE DI SANGUE


Le leggende sulle Baccanti avevano quasi tutte un fondo tragico. Di Agave, per esempio, si raccontava che, dopo aver ucciso senza averne coscienza il figlio Penteo, in preda al dolore fosse fuggita in Illiria, presso il re Licoterse, che poi aveva sposato. Ma qualche anno più tardi avrebbe eliminato anche il marito, volendo assicurare al padre Cadmo il possesso del regno illirico.
Vittima della follia delle Baccanti fu anche Orfeo, il grande musico-poeta; poiché si era rifiutato di partecipare ai loro riti orgiastici, venne assalito e fatto a pezzi come Penteo. La sua testa fu gettata nel fiume Ebro, da dove ridiscese fino al mare giungendo infine all’isola di Lesbo. Qui gli abitanti le tributarono solenni onori, costruendole una tomba dalla quale la testa, eloquente anche dopo la morte, continuò a cantare e recitare versi per lungo tempo.
Se Orfeo fu vittima innocente delle Baccanti, non altrettanto si può dire di Licurgo, re di Tracia, colpevole di avere gravemente offeso Dioniso. Accadde quando il dio, in viaggio per la Tracia, non solo si vide rifiutare l’ospitalità da Licurgo (che mise pure in dubbio la sua divinità), ma patì l’oltraggio di vedere imprigionati i Satiri e le Menadi del suo corteo. La vendetta non si fece attendere: colto da un raptus di follia indotto dal dio, Licurgo uccise a colpi di ascia sua figlio Driante, scambiandolo per un ceppo di vite. Come se non bastasse, la Tracia venne colpita da una terribile siccità, e l’oracolo predisse che, solo squartando colui che aveva offeso Dioniso, i campi sarebbe tornati fertili. Così gli abitanti della regione catturarono Licurgo e lo legarono a quattro cavalli che, lanciati in direzioni opposte, dilaniarono il corpo del sovrano.
Una versione tardiva del mito raccontava invece che Licurgo, dopo avere offeso Dioniso, era stato aggredito da una Baccante di nome Ambrosia che, trasformatasi in un ceppo di vite, gli si era avvolta attorno fino quasi a soffocarlo.


UN MITO NATO CON EURIPIDE


La fama delle Baccanti è legata soprattutto all’omonima tragedia del greco Euripide, che nel 406 a.C. sviluppò per primo in forma teatrale il mito di Agave e della tragica uccisione del figlio Penteo. Da questa matrice ellenica discendono tutte le successive rielaborazioni letterarie sul tema, dal poema rinascimentale Orfeo, di Angelo Poliziano, fino al romanzo novecentesco Il principe Caspian, di C.S. Lewis (quarto episodio del ciclo Le cronache di Narnia), popolato di Satiri, Menadi e altre figure mitologiche. W.H. Auden, in collaborazione con Chester Kalmann, scrisse il libretto dell’opera più famosa  di Hans Werner Henze, Le Bassaridi, trasposizione musicale del testo di Euripide; mentre la pittura, con Poussin, Bouguereau e molti altri ha spesso visitato il tema delle Baccanti (e dei Baccanali), rimarcandone la carica di mistero e sensualità.

lunedì 17 dicembre 2012

IPPOLITA




È la più celebre  tra le regine delle Amazzoni, l’unica, insieme all’omerica Pentesileo, su cui il mito abbia costruito un piccolo nucleo di leggende. Temuta e ammirata al tempo stesso, Ippolita aveva ereditato dal padre Ares il coraggio e la ferocia in combattimento: ma nel suo animo di guerriera trovava spazio anche la generosità, come dimostrò accettando di donare la sua preziosa cintura a Eracle, l’eroe da cui, per un equivoco, sarebbe poi stata uccisa.
L’ammirazione e il timore con cui gli antichi greci guardavano a Ippolita si riflettono nella fama dei due personaggi considerati – a seconda dei miti – responsabili della sua morte: Eracle e Teseo, l’invincibile figlio di Zeus e l’uccisore del Minotauro. Una coppia di eroi simbolo della grecità, chiamati a riscattare, con la loro vittoria, lo scandalo vivente rappresentato dal mondo tutto al femminile delle amazzoni.


GENEALOGIA DI IPPOLITA


Come tutto ciò che riguarda le Amazzoni, anche l’albero genealogico di Ippolita è piuttosto confuso. L’unico dato certo riguarda l’identità del padre, il dio della guerra Ares, che secondo molte fonti avrebbe generato la giovane guerriera con la sua amante Otrera, prima regina delle Amazzoni. Ma le stesse fonti fanno talvolta discendere l’intera stirpe delle Amazzoni dall’unione tra lo stesso Ares e Armonia, la dea della Concordia, per cui risulta difficile capire in che rapporto fossero le due genealogie. Analoga difficoltà si ritrova al momento di definire il lotto delle sorelle di Ippolita, generalmente identificate con  Antiope, Pentesilea e Melanippe. Delle tre sorelle, tuttavia, le prime due appaiono talvolta come figure autonome, discendenti di Ippolita e sue eredi al trono. Mentre Melanippe è spesso presentata come la sorella di Antiope ma non di Ippolita e Pentesilea. Insomma, un mistero in piena regola, ulteriormente complicato dal fatto che le storie di Ippolita, Pentesilea e Antiope tendono spesso a sovrapporsi, facendo pensare a un unico personaggio chiamato con nomi diversi.


NEMICHE DEI MASCHI


Spesso presentate come le prime femministe della storia, le Amazzoni erano una stirpe di donne-guerriere che vivevano nelle inospitali regioni a nord della Grecia: sulle pendici del Caucaso secondo alcuni, in Tracia o nelle pianure della Scizia meridionale (l’odierna Bulgaria) secondo altri.
La loro era una società interamente al femminile: gli uomini non erano ammessi a farne parte, se non in veste di servi da adibire ai lavori più umili. La stessa attività riproduttiva avveniva solo in un periodo molto limitato dell’anno, quando le Amazzoni, per perpetuare la loro specie, si recavano presso un popolo vicino, i Gargarei, e si accoppiavano con loro.
Della propria prole, le Amazzoni si occupavano solo se si trattava di femmine; i maschi venivano restituiti ai Gargarei, oppure mutilati volontariamente (accecandoli o azzoppandoli) per evitare che, una volta adulti, si ribellassero all’autorità delle donne.
Il regno delle Amazzoni era governato da una o, secondo altri, due regine. Le uniche divinità di cui era consentito il culto erano Ares e Artemide, rispettivamente dei della guerra e della caccia.
E caccia e guerra erano anche le uniche attività di cui amassero occuparsi le Amazzoni, che sin dalla prima infanzia si sottoponevano a severissimi addestramenti per eccellere in entrambe le discipline. Addirittura, secondo lo storico greco Diodoro Siculo (I sec. a.C.), nella società amazzone vigeva la consuetudine di amputare il seno destro delle adolescenti, affinché fossero in grado di maneggiare l’arco con maggiore disinvoltura. Di qui l’origine del loro nome, che secondo un’etimologia discussa potrebbe significare “senza mammella”.
Nel mito antico, le Amazzoni vengono fatte combattere (e perdere) con tutti i maggiori eroi greci, da Eracle a Teseo, da Bellerofonte ad Achille, in uno scontro che spesso prefigura la lotta tra il mondo classico e le barbarie orientali. Anche il dio del vino Dioniso dovette vedersela con le Amazzoni, che sottomise durante il suo viaggio di civilizzazione in Oriente.


IL CINTO CONTESO


Il più conosciuto mito greco sulle Amazzoni ha per protagonista Ippolita e il suo cinto. La regina lo aveva ricevuto in dote dal padre Ares che, donandoglielo, aveva voluto rimarcare la sua predilezione per lei e il potere che le attribuiva sulle altre Amazzoni. Ma la fama del cinto si diffuse presto in tutta la Grecia, e a Micene Admeta, figlia del pavido Euristeo, si incaponì affinché il padre glielo procurasse. Così Euristeo convocò Eracle, che in quel periodo si trovava al suo servizio per purificarsi dell’omicidio della moglie Megara, e gli ordinò di portargli la cintura.
Fu questa la nona fatica di Eracle, che raccolse attorno a sé un manipolo di eroi (tra cui Teseo) e con loro si recò in Tracia. Qui Ippolita lo accolse benevolmente, dicendosi disposta a cedergli la cintura; ma Era, sotto mentite spoglie, suscitò una disputa tra Greci e Amazzoni: nella zuffa che ne seguì Eracle, sentendosi ingannato, uccise Ippolita.
Altre fonti sostenevano invece che l’ostilità delle Amazzoni verso Eracle si fosse manifestata sin dall’arrivo in Tracia dell’eroe. Di qui una lotta senza quartiere contro i Greci i quali, per difendersi, catturarono Melanippe, sorella di Ippolita. Allora la regina, pur di riavere Melanippe, si disse disposta a scambiarla con la propria cintura; ma un malinteso al momento dello scambio fece esplodere le ostilità e provocò l’uccisione di Ippolita da parte di Eracle.
Esisteva infine una tradizione ateniese secondo la quale Ippolita non era morta per mano di Eracle ma di Teseo. I motivi della morte erano ritenuti i più vari: secondo alcuni la regina era stata uccisa in battaglia mentre, alla testa delle Amazzoni, marciava sull’Attica per liberare Antiope, rapita da Teseo. Ma altre fonti parlavano invece di una morte di crepacuore, causata dal dolore per essere uscita sconfitta nello scontro con l’eroe.


IL FIUME DELLE AMAZZONI


Il ricordo delle Amazzoni sopravvisse a lungo nella memoria dell’Occidente, tanto che ancora nel XVI secolo lo spagnolo Francisco de Orellana ribattezzava Rio delle Amazzoni – in onore di una tribù di donne-guerriere che sosteneva di aver incontrato – l’immenso fiume brasiliano appena esplorato. Più prosaicamente, l’arte figurativa si appassionò al tema delle Amazzoni per le sue potenzialità bellico-erotiche, che traspaiono per esempio nei dipinti dedicati alle figlie di Ares da Giulio Romano, Pieter Paul Rubens e William Morris. Poco attratta dal mito delle Amazzoni la letteratura, che tuttavia ne offrì un’interessante lettura romantica nella tragedia Penthesilea (1808) di Heinrich von Kleist. Al contrario, la musica, soprattutto nel Seicento, dedicò alle donne-guerriere parecchie opere, tra cui L’Amazzone corsara di Alessandro Scarlatti.