domenica 30 ottobre 2011

EROS


L’amore ai tempi dei Greci aveva due volti: quello lontano e indecifrabile di Afrodite e quello, beffardo, del figlio Eros, un fanciullo alato che, con le sue frecce, scatenava passioni irrefrenabili nel cuore degli uomini. Una divinità, Eros, in cui si incarnava il volto più primordiale del desiderio, tanto sfrenato e irrazionale da soggiogare al suo potere persino degli dèi.
Dispettoso, irrequieto, crudele: così i poeti greci descrivevano Eros, un fanciullo alato che svolazzava qua e là per il mondo, infiammando i cuori con le sue frecce scoccate a caso. Nessuno, per quanto anziano o potente, poteva sottrarsi alle sue saette. Gli stessi dèi non erano immuni alle ferite di Eros che, scatenando i sensi, mettevano in pericolo la pace dell’Olimpo.

GENEALOGIA DI EROS

Vi sono differenti versioni sulle origini di Eros, identificato spesso nel mondo romano con Cupido. Nelle più antiche genealogie era considerato un dio primordiale, scaturito dal Caos insieme alla Terra. Tradizioni più recenti lo ritenevano invece figlio di Afrodite, che lo avrebbe generato con Ermes oppure con il padre Zeus, che quindi era contemporaneamente genitore e nonno del neonato. Una leggenda tarda attribuiva la maternità di Eros a Iris, l’Arcobaleno, che sarebbe stata fecondata da Zefiro, il vento dell’Ovest. Di tutte le possibile genealogie di Eros, la più consolidata tra gli antichi era però quella che lo riteneva frutto dell’ardente passione tra la dea dell’amore Afrodite e il dio della guerra Ares. Dall’unione tra i due dèi, allietata dalla nascita di numerosi figli, sarebbero stati generati anche Antero, dio dell’amore corrisposto, e Armonia, l’unificatrice, colei che appiana dissidi e favorisce la concordia tra i coniugi. A sua volta Eros, sposando Psiche, avrebbe generato Piacere, dalla cui soddisfazione dipende la sopravvivenza del genere umano.

ADORATO E TEMUTO

I testi mitologici più antichi descrivono Eros come una divinità primordiale, antica come Gaia (la Madre Terra), potente come nessun’altra, adorata dagli adepti sotto forma di pietra grezza.
Sulle sue origini i pareri erano discordi: alcuni mitologi lo facevano discendere dal Caos, il vuoto abisso da cui si era generata ogni cosa, mentre altri ritenevano che fosse nato dall’Uovo Primordiale, le cui due metà costituivano l’una la Terra e l’altra il Cielo. A prescindere dalle divergenze sulla sua origine, Eros era comunque ritenuto da tutti una forza travolgente, creativa e distruttiva insieme, fondamentale nell’assicurare la continuità della specie e la stessa coesione interna del Cosmo. Solo il filosofo Platone, nel Convivio, si dissociò da questa visione divinizzata del desiderio sessuale: a suo dire, infatti, Eros altri non era che un demone, un intermediario tra gli uomini e gli dèi, sempre alla ricerca del suo oggetto del piacere e quindi perennemente inquieto e insoddisfatto.
Finita l’epoca delle grandi riflessioni filosofiche, con la civiltà classica la figura di Eros si fissò in quella che sarebbe diventata la sua iconografia tradizionale: un bambino alato che si compiace di scatenare la passione nei cuori umani, ferendoli con le sue frecce d’oro (ma Eros dispone anche di frecce di piombo per cancellare il desiderio) o incendiandoli con le sue torce. Si moltiplicarono anche le leggende sul dio, spesso rappresentano nei panni di deus ex machina. È il caso per esempio del mito di Dafne e Apollo. Qui Eros fa innamorare il dio della ninfa recalcitrante, per vendicarsi delle sue continue canzonature. Al di là di questi racconti, dai contenuti lievi e spesso licenziosi, resta comunque costante, anche in epoca classica e poi alessandrina, la percezione di Eros come un dio pericoloso e inaffidabile: un fanciullo che la stessa madre Afrodite mostrava di temere, e del quale i poeti greci non mancavano mai di evidenziare la potenza accecante, capace di sconvolgere la mente umana e, quindi, di sovvertire ogni ordine familiare o sociale.


AMORE E PSICHE

Il più celebre mito dedicato a Eros compare nell’unico romanzo in latino giunto fino a noi, le Metamorfosi di Lucio Apuleio (II sec.d.C). Racconta la storia d’amore tra Eros (o Amore) e Psiche, una giovanissima principessa il cui nome, in greco, significa “anima”. Dotata di una bellezza sovrumana, Psiche si attirò la gelosia di Afrodite, che chiese al figlio Eros di farla innamorare del più abietto tra gli uomini. Eros però le disobbedì, stregato a sua volta dalla fanciulla, e fece in modo che Psiche fosse trasportata dal vento in un palazzo incantato, dove si univa a lei ogni notte senza svelarle il suo volto. Dopo qualche tempo, tuttavia, Psiche cominciò a soffrire di malinconia, poiché di giorno era sempre sola: ottenne così da Eros il permesso di rivedere le sue sorelle. Queste però, vedendo i regali che Psiche aveva donato loro, e sentendo la sua gioia per l’amante, furono vinte dalla gelosia, e la convinsero che il misterioso visitatore notturno fosse in realtà un pericoloso mostro. Al suo rientro a palazzo, Psiche nascose perciò una lampada a olio sotto il letto e attese che Eros si addormentasse per vederne il volto: scoprì così di essere amata da un bellissimo dio alato. Accadde però che una goccia di olio bollente cadesse dalla lampada sulla spalla di Eros, che si risvegliò e, offeso dall’inganno di Psiche, la abbandonò. Folle di dolore, la ragazza vagò di città in città alla ricerca dell’amato. Giunse infine nel palazzo di Afrodite che, memore dell’antica rivalità, la imprigionò e la costrinse a fatiche improbe. L’ultima di questa consisteva nel recuperare l’acqua della giovinezza da Persefone, regina dell’Aldilà. Psiche scese agli Inferi ma, sulla via del ritorno, cedette alla tentazione e aprì la boccetta, cadendo in un sonno mortale. Allora Eros, che dall’Olimpo aveva seguito tutte le peripezie dell’amata, la raggiunse e la risvegliò con una freccia. Quindi la portò sull’Olimpo, dove ottenne da Zeus il permesso di sposarla. I due amanti poterono così coronare il loro sogno d’amore, allietato dalla riconciliazione tra Psiche e Afrodite.


L’AMORE CARNALE

Nella letteratura postclassica Eros perde i suoi connotati di divinità per trasformarsi in un archetipo dell’amore terreno. In tale veste lo si ritrova in opere medievali – per esempio il poema cortese Roman de la Rose di Guillame de Lorris – o seicentesche (come le commedie Cynthia’s Revels, di Ben Jonson e El amor enamorado, di Lope de Vega). Anche la poesia non disdegna il mito di Eros, che ha ispirato versi di J.W. Goethe, A.C. Swinburne e R.M. Rilke. Nell’arte figurativa, a partire dal periodo gotico, Eros è stato spesso interpretato come personificazione dell’amore carnale contrapposto a quello divino. Ma altrettanto frequenti sono letture allegoriche diverse: Eros dormiente, per esempio, è il simbolo del sonno del desiderio; Eros in lacrime l’immagine della castità forzata (come nella Danae di Rembrandt); Eros bendato l’emblema dell’accecamento amoroso; Eros che lotta con il fratello Antero la raffigurazione dello scontro tra amore fisico e spirituale.

venerdì 14 ottobre 2011

LE SIRENE


Il loro potere risiedeva nella voce, così incantevole e ammaliante da stregare chiunque la ascoltasse. Ecco perché le Sirene erano tanto temute da chi navigava per mare: il loro canto accecava la mente umana e conduceva le navi alla rovina.
Nell’immaginario greco, il mare era un universo affollato da creature misteriose, spesso ostili nei confronti degli uomini. Tra queste, le sirene erano le più temute e insidiose, perché con il loro canto potevano ammaliare i marinai conducendoli al naufragio. Un richiamo a cui soltanto pochi eroi, come Ulisse o il cantore tracio Orfeo, erano in grado di resistere.

GENEALOGIA DELLE SIRENE

La nascita delle sirene è in genere attribuita al dio fluviale Acheloo, che le avrebbe generate con la ninfa Tersicore, figlia di Zeus e Mnemosine. Alcuni autori ritengono tuttavia che la madre delle sirene fosse in realtà Sterope, figlia di re Portaone ed Eurite, oppure una delle nove Muse: Tersicore, Melpomene o Calliope. Quanto al padre, chi respingeva la paternità di Acheloo puntava su Forco, antico dio degli abissi che, con la moglie Ceto, aveva popolato il suo regno di numerosi mostri marini. Tra tutte le leggende fiorite sulle origini delle sirene, la più affascinante è però quella elaborata nel IV secolo d.C. dal filosofo Libanio. Secondo questo erudito siriano, la nascita delle sirene sarebbe infatti avvenuta durante il duello tra Acheloo ed Eracle per la conquista della bella Deianira. Come racconta Ovidio, in quell’occasione Eracle ebbe la meglio sul rivale staccandogli un corno dalla fronte. E dalle gocce di sangue che caddero nell’acqua nacquero del sirene, che, secondo questa leggenda,  si sarebbero autogenerate.

DEMONI DEL MARE

Le sirene sono citate per la prima volta nell’undicesimo canto dell’Odissea. È la maga Circe a mettere in guardia Ulisse dal pericolo rappresentato da questi mostri marini nascosti su un’isola dell’Italia meridionale. E l’eroe di Itaca sa far tesoro dei consigli dell’amante, vanificando con l’astuzia i poteri di questi demoni dal canto soave.
Nel racconto omerico, le sirene sono figure ancora abbastanza indistinte. Nulla ci viene detto del loro aspetto (forse perché ben noto ai Greci dell’epoca attraverso altri racconti mitologici), né dei loro nomi. Solo la loro pericolosità viene rimarcata: grazie alle voci suadenti, le sirene sono in grado di attirare a sé i marinai che transitano vicino alla loro isola, facendoli incagliare sugli scogli.
Poi uccidono i sopravvissuti al naufragio e li divorano.
Gli autori successivi ad Omero si sforzano di definire meglio la natura e fisionomia delle Sirene. Innanzitutto ne fissano il numero in quattro (o tre, secondo altre fonti). Poi ne determinano i nomi: Telete, Redne, Molpe e Telsiope secondo alcuni, Pisinoe, Aglaope e Telsiepia (o Partenope, Leucosia e Ligia) secondo altri. Anche sul loro aspetto le informazioni si fanno più dettagliate. Si tratta di orribili esseri antropomorfi, con fattezze femminili ma il corpo da volatile (l’immagine della donna-pesce si affermerà solo in epoca medievale). Quanto all’isola su cui vivono, i poeti latini la collocano lungo le coste campane, al largo della penisola di Sorrento, contraddicendo così Omero che l’aveva situata nel Mare di Sicilia.
La ridefinizione postomerica della figura delle sirene riguarda anche le loro prerogative. Se nei testi più antichi sono sempre descritte come mostri marini, a partire dall’epoca classica cominciano ad essere collegate anche al mondo dell’Aldilà, dove si trasformano in divinità sostanzialmente benevole: con il loro canto melodioso, infatti, hanno il compito di consolare le anime dei defunti appena giunte nell’Oltretomba, rassicurandole prima dell’incontro fatale con Persefone, moglie di Ade e spietata regina degli Inferi.

PESCI O UCCELLI?

Nell’iconografia classica, le Sirene sono in genere rappresentate come esseri alati, con fattezze femminili e artigli robusti. In qualche caso la parte inferiore del corpo è sostituita da un uovo. Non di rado il volto è barbuto. Solo nel VII secolo d.C., con il bestiario Liber Monstrorum, comparve l’immagine della Sirena con coda di pesce.




VENDETTA DIVINA

Molti autori attribuivano l’aspetto mostruoso delle Sirene a una vendetta di Demetra, dea della Terra, che aveva così voluto punirle per non essersi opposte al ratto della figlia Persefone (con cui stavano giocando) da parte di Ade.

SFIDA ALLE MUSE

Secondo Apollodoro, le Sirene formavano un terzetto in cui una cantava, un’altra suonava la cetra e la terza il violino. Ed erano tanto brave da volersi porre in competizione con le Muse, che per punizione strapparono loro le piume e le usarono come ornamento.

PROVA D'AMICIZIA


La versione più commovente della trasformazione delle Sirene in demoni alati è stata elaborata da Ovidio nelle Metamorfosi. Secondo il poeta latino, infatti, le Sirene erano in origine bellissime fanciulle legate da una tenera amicizia a Persefone, figlia di Zeus e Demetra. Quando costei fu rapita da Ade, dio degli Inferi, e trascinata a forza nell’Oltretomba, le Sirene non seppero darsi pace. Girarono in lungo e in largo la terra finché, disperate, non chiesero agli dèi di far crescere loro le ali per poter cercare l’amica anche in cielo e nel mare.





SCONFITTE DA ORFEO


Le Sirene sono legate a due episodi celebri del mito greco. Quando Ulisse, durante il viaggio di ritorno verso Itaca, passò vicino all’isola su cui abitavano, le Sirene fecero di tutto per sedurre lui e i suoi compagni con il canto. Ma l’eroe riempì le orecchie dei suoi marinai di cera, in modo che non sentissero quella musica fatale. Poi chiese ai suoi compagni di legarlo all’albero maestro della nave, ordinando loro di non liberarlo per nessuna ragione: potè così soddisfare la sua curiosità di ascoltare il canto delle Sirene senza esserne sopraffatto.
Nel mito degli Argonauti, è invece Orfeo, il più grande musico dell’antichità, a sfidare le Sirene. Accadde quando la nave che recava Giasone e i suoi compagni alla ricerca del Vello d’Oro, si trovò a navigare nei pressi della loro isola. Subito nell’aria si diffuse un canto celestiale. Ma Orfeo, che faceva parte dell’equipaggio, imbracciò la sua cetra, e trasse dalle corde una musica così struggente che nessuno dei suoi compagni (tranne Bute) provò il desiderio di buttarsi in mare per raggiungere l’isola. Dopo l’umiliazione subita da Orfeo (ma talvolta l’episodio viene anticipato ai tempi del passaggio di Ulisse), le Sirene salirono su un’alta rupe e si suicidarono. Nel loro destino era infatti scritto che non sarebbero sopravvissute all’incontro con un uomo che avesse resistito al loro canto.



SIRENE D'AMORE


Con la caduta dell'impero romano, l'iconografia classica delle Sirene - mostri alati dalle sembianze femminili - si estingue. Al suo posto comincia ad affermarsi il nuovo canone della donna-pesce, che nell'arte romantica diventa il simbolo della duplicità della natura umana. Anche il pittore Hieronymous Bosch, nel suo Giardino delle Delizie, popola l'Eden di Sirene, tritoni e altre creature acquatiche.

In campo letterario, l'archetipo della donna-pesce ispira al danese Hans Christian Andersen forse la più bella fiaba dell'epoca moderna, La Sirenetta, in cui la protagonista rinuncia all'eternità della vita marina per amore di un uomo. L'amore è protagonista anche del racconto Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, incentrato sulla passione di un anziano grecista per una donna-pesce, e fa da filo conduttore a gran parte dei film dedicati al mito delle Sirene, tra cui il fortunatissimo Splash, una sirena a Manhattan girato da Ron Howard nel 1984.

sabato 8 ottobre 2011

PROMETEO


Era ritenuto dai Greci il più intelligente e saggio dei Titani. Alleato di Zeus nella guerra contro Crono, Prometeo non esitò a rinnegare la sua amicizia con il re dell’Olimpo per donare il fuoco agli uomini, affrancandoli da una condizione di umiliante servitù. Un tradimento che Zeus non gli perdonò mai, condannandolo a un supplizio che sarebbe dovuto essere eterno.
Nel mito antico la figura di Prometeo è descritta in modo ambivalente: da un lato è il trasgressore, il ribelle, colui che si oppone a Zeus sfidando l’ordine divino; dall’altro è l’amico dell’uomo, il benefattore, pronto a spogliarsi della propria divinità pur di aiutare i mortali. Una duplicità in qualche modo già moderna, connaturata a un personaggio sempre in bilico tra generosità e scaltrezza.

GENEALOGIA DI PROMETEO

Cugino di ZEUS e di gran parte degli dèi dell’Olimpo, PROMETEO discendeva come loro da un Titano: suo padre, infatti, era GIAPETO, nato dalla relazione di URANO e GAIA e fratello di CRONO, il padre di Zeus. Sulla madre di Prometeo, invece, gli antichi avevano le idee confuse: la maggior parte riteneva che fosse CLIMENE, una ninfa nata dagli amori marini tra OCEANO e TETI; ma c’era anche chi faceva il nome di ASIA, un’altra Oceanina, e addirittura chi riteneva che a generare Prometeo fosse stata ERA, ingravidata con la violenza da un giovane di nome EURIMEDONTE. Pochi dubbi invece sui fratelli di Prometeo; erano tre, tutti più rozzi di lui: il violento ATLANTE, il brutale MENEZIO, e il maldestro EPIMETEO, che di Prometeo è un vero e proprio alter ego in negativo. Abbastanza lineare anche la vita familiare di Prometeo. Il Titano ebbe un’unica moglie, CELENO, e con essa generò tre figli, DEUCALIONE, LICO e CHIMEREO. Secondo il drammaturgo Euripide, tuttavia, Prometeo tentò senza successo di sedurre ATENA, la casta dea della guerra, che si era mostrata assai benevola nei suoi confronti insegnandogli l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina e molte altre scienze.

IL FUOCO RUBATO

Nella letteratura classica, Prometeo è sempre descritto come il benefattore del genere umano, colui che diede dignità e coscienza di sé a una stirpe poco amata da Zeus e condanata a vivere nel sottosuolo. La sua opera di emancipazione cominciò nel momento stesso della creazione, quando gli dèi affidarono a lui e al fratello Epimeteo, che però sbagliò nella distribuzione delle risorse e, quando giunse all’uomo, si accorse di non avere più nulla da donargli. Dovette così intervenire Prometeo che, per porre rimedio all’errore, rubò il fuoco agli dèi e lo diede agli uomini. Il suo furto però mandò su tutte le furie Zeus, che fece incatenare il Titano a una roccia e lo punì con uno spaventoso supplizio: ogni giorno un’aquila si avventava su di lui e gli divorava il fegato, che ricresceva durante la notte rendendo eterna la tortura.
A questa versione del mito se ne affianca poi un’altra, secondo la quale l’ostilità tra Zeus e Prometeo ebbe origine in occasione di un solenne sacrificio a Mecone: la vittima sacrificale era un toro e bisognava decidere quale parte delle sue carni destinare a Zeus e quale agli uomini. Prometeo, volendo favorire i mortali, preparò due sacche apparentemente uguali, ma ne riempì una con le sole ossa del toro, rivestite da un appetitoso strato di grasso, l’altra con le parti migliori dell’animale, nascoste sotto un pezzo di scarto. Zeus, ovviamente, scelse la prima sacca e, quando si accorse del raggiro, si vendicò togliendo agli uomini il fuoco. Prometeo, con l’aiuto di Atena, scalò allora il monte Olimpo, rubò dal carro del Sole una scintilla e, nascostala in un tronco cavo, la porto sulla Terra. Gli uomini riebbero così il fuoco, ma Zeus, vedendo dall’alto dell’Olimpo brillare sulla Terra migliaia di falò, si avvide del furto e punì i mortali inviando loro Pandora, l’origine di tutti i guai umani. Quanto a Prometeo, anche in questa seconda versione finisce incatenato a una roccia, vittima di un supplizio da cui solo molto tempo dopo sarebbe stato liberato.

LA CREAZIONE DELL'UOMO

Secondo l’erudito greco Apollodoro, Prometeo non si limitò ad aiutare gli uomini, ma fu lui stesso a crearli, modellandoli con l’acqua e la creta a immagine e somiglianza degli dèi. Poi convocò Atena e la convinse a insufflare il suo soffio vitale nelle creature di fango che aveva plasmato.


LA LIBERAZIONE

Per liberarsi dal suo orrendo supplizio, Prometeo ricorse alle proprie doti profetiche. Egli sapeva infatti da quale donna sarebbe nato il figlio di Zeus che, secondo l’oracolo, un giorno lo avrebbe deposto. Convinse allora il re dell’Olimpo a barattare la preziosa informazione con la fine della sua pena: Zeus consentì a Eracle di liberare Prometeo e apprese così che la donna in questione era la nereide Teti, subito allontanata dall’Olimpo.

IL DONO DELLA PROFEZIA

Le doti di preveggenza non servirono a Prometeo solo per convincere Zeus a porre termine alla sua prigionia. Già in precedenza, ai tempi della Titanomachia, lo avevano salvato dalla rovina spingendolo a schierarsi al fianco di Zeus nella guerra contro Crono, che era sostenuto da tutti gli altri Titani. In seguito il veggente Prometeo fece uso delle sue doti profetiche per indicare a Eracle (impegnato nell’undicesima fatica) come sottrarre i pomi d’oro dal giardino delle Esperidi e, più tardi, per salvare il figlio di Deucalione dal diluvio con cui Zeus intendeva annientare la mai troppo amata stirpe umana.

PANDORA E IL VASO

L’ira di Zeus per il furto del fuoco si riversò, oltre che su Prometeo, anche sugli uomini, colpevoli a suo dire di aver assecondato il Titano. Per questo il signore dell’Olimpo li punì inviando loro Pandora, una bellissima fanciulla forgiata da Efesto con l’aiuto di Atena. A Pandora gli dèi avevano donato ogni sorta di qualità: il fascino, l’abilità manuale, la grazia, la persuasione. Ma Ermes instillò nel suo cuore la menzogna e la furbizia, rendendola così inaffidabile. Quando la creazione di Pandora fu completata, Zeus mandò la ragazza da Epimeteo, il quale restò incantato dalla sua bellezza e, trascurando i saggi consigli del fratello Prometeo (che lo aveva esortato a non accettare doni da Zeus, perché potevano nascondere un inganno), decise di sposarla. Mai errore si rivelò più fatale. Pandora, infatti, aveva portato con sé dall’Olimpo un vaso nel quale erano racchiuse tutte le possibili sciagure destinate agli uomini. Spinta dalla curiosità, la giovane scoperchiò il vaso, e tutte le disgrazie schizzarono fuori, diffondendosi per il mondo. Solo la speranza, che era in fondo al contenitore, rimase nel vaso, perché la fanciulla rimise il coperchio prima che fosse uscita. Grazie a Pandora, Zeus si vendicò così del genere umano, che pagò la sua amicizia con Prometeo ottenendo in sorte una vita piena di guai e tribolazioni.


SFIDA AGLI DEI

Simbolo della tendenza umana a ribellarsi agli dèi, Prometeo ha affascinato sia gli antichi che i moderni. Tra i primi si sono occupati di lui Esiodo, Platone, Eschilo e, in epoca postclassica, Boccaccio e il filosofo Francis Bacon. Molto ricca la produzione letteraria su Prometeo tra XVIII e XIX secolo: se Voltaire vede nel Titano un rivoluzionario che si batte per la libertà, Rousseau lo identifica invece con il corruttore del felice stato di natura, e George Byron con un ribelle in lotta col destino. Nel Novecento il mito di Prometeo – che nei secoli ha ispirato dipinti di El Greco e Rubens, opere musicali di Beethoven e Franz Liszt, drammi teatrali di Calderòn de la Barca e P. Bysshe Shelley – ha avuto interpreti d’eccezione nel filosofo Albert Camus e nello scrittore Andrè Gide, autore di una spiazzante rivisitazione del mito intitolata Prometeo male incatenato.  
  
  

lunedì 3 ottobre 2011

ACHILLE


E’ l’eroe greco per eccellenza, il personaggio del mito che meglio incarna i valori della classicità: la bellezza, il coraggio, il valore quasi sovrumano in battaglia. Sensibile all’amicizia, è rispettoso del volere degli dèi e pietoso verso il nemico. Ma se l’ira lo assale, Achille può diventare spietato verso i suoi stessi alleati.
Nessun altro eroe greco ama la guerra quanto lui. Per Achille combattere è una gioia fisica, un piacere nutrito dal desiderio di conquistare la gloria. Eppure nella sua indole non mancano aspetti più dolci. Come quando piange la morte dell’amico Patroclo o si commuove per il dolore del re troiano Priamo a cui ha ucciso il figlio Ettore.

GENEALOGIA DI ACHILLE

Secondo il mito da Omero, ACHILLE era figlio di un sovrano, PELEO, e d una Nereide, la bellissima TETIDE. Tra i suoi antenati c’era ZEUS che, unendosi alla ninfa EGINA, aveva generato  EACO, padre di Peleo. Quanto alla madre Tetide, era frutto dell’unione tra NEREO, il “vecchio del mare”, e DORIDE, figlia di TETI e di OCEANO. Nell’albero genealogico di Achille c’erano dunque evidenti legami con gli elementi primordiali del cosmo, dall’acqua (attraverso Nereo e Oceano) alla Terra (tramite GAIA, madre di Nereo), fino al cielo (incarnato da URANO, marito di Gaia). A differenza di altri protagonisti del mito, Achille non ebbe una progenie numerosa. Le fonti antiche gli attribuiscono un unico figlio, NEOTTOLEMO, che l’eroe concepì con una delle tante figlie del re di Sciro, Licomede, DEIDAMIA, durante il periodo che trascorse presso quella corte. Neottolemo sarebbe poi diventato a sua volta un valoroso guerriero e avrebbe partecipato, dopo la morte del padre, alla guerra di Troia.

LA PROVA DEL FUOCO

La leggenda di Achille è una della più antiche e variegate dell’intero mondo greco. Resa popolare dall’Iliade, di cui il collerico figlio di Tetide è l’indiscusso protagonista, si è via via arricchita di decine di episodi minori, che hanno dato vita a un ciclo di Achille sovraccarico di varianti spesso contraddittorie. Anche sull’infanzia dell’eroe esistono versioni divergenti. Secondo alcuni il piccolo Achille fu allevato da Tetide alla corte del marito, sotto la guida del precettore Fenice; altri sostengono invece che Achille crebbe lontano dalla madre, tornata nei suoi regni marini per i dissensi col marito circa la sorte da riservare al figlio. Peleo, infatti, intendeva fare di Achille il suo erede sul trono di Ftia, in Tessaglia, mentre l’aspirazione della ninfa Tetide era di regalargli la sua stessa immortalità. Per questo, come aveva fatto con i sei precedenti figli, cercò di purificare Achille con il fuoco, nella speranza che il calore delle fiamme estirpasse in lui le componenti mortali ereditate dal padre. Peleo, però, intuì i piani di Tetide e, strappato il piccolo al rogo, lo portò dal centauro Chirone, che curò il bimbo e sostituì l’osso ustionato del suo tallone con quello di un gigante morto da poco. E poiché questo gigante si era distinto in vita per la rapidità nella corsa, anche Achille ne ereditò le doti, meritandosi l’appellativo di “piè veloce”.


IMMERSO NELLO STIGE

Secondo il poeta romano Stazio, Tetide, per rendere immortale il figlio, non lo espose alle fiamme ma lo immerse, tenendolo per il tallone, nelle acque dello Stige, il fiume degli Inferi. Il bambino divenne in tal modo invulnerabile, a eccezione del tallone che, a causa della presa materna, non fu bagnato dalle acque.

IL MAESTRO CHIRONE

Dopo aver guarito il piccolo Achille, il centauro Chirone si occupò della sua educazione, insegnandogli valori come la sobrietà, l’onestà e il senso dell’onore. Dal suo maestro Achille imparò anche a tirare con l’arco e a suonare la cetra, oltre a impratichirsi nell’equitazione e nella scienza medica.


IN PARTENZA PER TROIA

Una volta adulto, Achille seppe dalla madre quale destino gli era stato riservato dagli dèi: raggiungere la gloria in guerra e morire giovane, oppure vivere a lungo in modo anonimo. Achille, senza esitazioni, scelse la gloria e accettò l’invito di Ulisse di salpare per Troia.

IL TRAVESTIMENTO FALLITO

In aperto contrasto con la tradizione omerica, alcuni autori sostengono che Peleo, avendo saputo da un oracolo che Achille sarebbe morto a Troia, tentò con ogni mezzo di evitare la sua partenza. Ordinò perciò ad Achille di indossare abiti femminili e lo portò alla corte di Licomede, re di Sciro, spacciandolo per una donna. Qui l’eroe visse per nove anni, mescolandosi alle figlie del re e ottenendo il nomignolo di Pirra, ovvero “la Fulva”, per il colore dei suoi capelli. Lo stratagemma funzionò fino a quando Ulisse, al quale l’indovino Calcante aveva predetto che Troia non sarebbe caduto senza l’aiuto di Achille, non venne a sapere dove si nascondeva l’eroe. Egli allora si travestì da mercante e si presentò a Licomede, a cui chiese di poter esporre le sue mercanzie a corte. Ebbe in tal modo accesso agli appartamenti femminili, dove le figlie del re si gettarono su stoffe e gioielli. Achille invece fu attratto da alcune armi che Ulisse aveva astutamente mescolato alla merce. Il travestimento di Achille fu pertanto scoperto e Peleo nulla più poté per impedire al figlio di andare incontro al proprio destino.

L'IRA FUNESTA

L’ira di Achille è il tema portante dell’Iliade di Omero, che racconta gli ultimi 51 giorni della guerra di Troia. In precedenza c’erano stati altri nove anni di schermaglie, durante i quali, secondo la leggenda, Achille aveva alternato imprese gloriose ad azioni di brigantaggio.
Solo con il decimo anno la guerra di Troia entrò nel vivo. A segnare l’inizio di questa nuova fase fu il litigio tra Achille e Agamennone, comandante delle truppe greche a Troia. La lite si scatenò attorno alle sorti di Criseide, figlia di un sacerdote di Apollo. Agamennone l’aveva fatta prigioniera durante un’incursione, ma la conseguenza di questo atto blasfemo fu l’ira di Apollo che, per vendetta, gettò una pestilenza tra i greci. D’accordo con gli altri capi achei, Achille costrinse allora Agamennone a liberare Criseide, ma il re, in cambio, impose ad Achille la consegna di Briseide, la sua schiava prediletta. Sdegnato, Achille decise di non mettere più piede in battaglia fino a che non gli fosse stata resa giustizia. Una decisione che, unita agli intrighi della madre Tetide (che, per dispetto contro Agamennone, aveva convinto Zeus a sostenere i Troiani), portò i Greci a un passo dalla rovina. Invano Agamennone tentò di negoziare il rientro di Achille in battaglia; l’eroe respinse ogni offerta e, insieme all’amico Patroclo, osservò da lontano l’avanzata dei Troiani verso il campo acheo. Accadde tuttavia che Patroclo, stufo dell’inattività, si fece prestare la corazza di Achille e si recò in battaglia. Dopo una serie di duelli vittoriosi, cadde per mano di Ettore, principe di Troia.
La sua morte provocò in Achille una tale ira da spingerlo a riappacificarsi con Agamennone e a riprendere le armi. I Troiani furono ricacciati indietro ed Ettore, il loro capo, fu ucciso da Achille che poi, per sfregio, ne legò il cadavere alla biga e lo trascinò per dodici giorni attorno alle mura di Troia. Solo quando seppe che gli dèi erano irritati con lui per la sua mancanza di pierà, Achille pose termine alla vendetta e restituì il corpo di Ettore al padre Priamo, anziano re di Troia. In seguito (ma qui siamo già nella tradizione postomerica) riprese a combattere, distinguendosi per il suo valore fino alla morte. Achille morì a causa di una freccia che lo colpì nel suo unico punto vulnerabile: il tallone.


LUSSURIOSO E INNAMORATO

Le elaborazioni poetiche sulla figura di Achille iniziano già nel medioevo con Dante Alighieri, che colloca l’eroe nel girone dei lussuriosi (per il suo amore folle per Polissena, figlia di Priamo), e con Francesco Petrarca che lo inserisce nei suoi Trionfi. Pietro Metastasio, nel XVIII secolo, gli dedica un poemetto, Achille a Sciro, e così pure Goethe, che però lascia incompiuta la sua Achilleide.
Abbondante anche la produzione pittorica sull’eroe, a cui tra l’altro hanno dedicato loro tele Annibale Carracci, Giovan Battista Tiepolo, Eugène Delacroix e Jean-Auguste Ingres.
La musica ha omaggiato Achille attraverso opere di Giovan Battista Lulli, Domenico Cimarosa e Luigi Cherubini. In tempi più vicini a noi, da segnalare la raccolta poetica di W. H. Auden intitolata Scudo di Achille e un libro di racconti di Alberto Savinio dedicato al tema di Achille innamorato.