mercoledì 27 giugno 2012

PARIDE



Bello come un dio, imperfetto come un uomo: così, nell’Iliade, Omero presenta Paride, il principe troiano che, rapendo Elena, scatenò la rabbia dei Greci e la guerra fatale alla sua città. Un personaggio anomalo e, per tanti versi, contraddittorio: amante della vita pastorale ma pronto, pur di avere Elena, a voltarle le spalle; non privo di coraggio ma così restio a battersi da essere accusato di viltà. Un personaggio, comunque, mai all’altezza del fratello Ettore e degli altri guerrieri omerici, loro sì interpreti di quella visione eroica della vita che l’Iliade intendeva celebrare.
Figlio di Priamo, fratello di Ettore, amante di Elena, giustiziere di Achille, Paride si colloca al centro, o almeno nelle vicinanze, di tutti gli snodi cruciali dell’Iliade. Eppure la sua figura rimane sempre defilata rispetto a quella degli altri eroi del poema, quasi che, agli occhi di Omero, egli dovesse rivestire un unico, scomodissimo ruolo: quello di responsabile primo, ancorché, almeno in parte, inconsapevole, della distruzione di Troia.

GENEALOGIA DI PARIDE

Nato dall’unione tra il re di Troia, Priamo, e la sua seconda moglie Ecuba, Paride discendeva attraverso il padre da quel Laomedonte che, avendo mancato alla parola data nei confronti di Eracle, aveva causato la rovina della sua stessa stirpe. Forse per questo la vita del fratello minore di Ettore fu accompagnata sin dalla nascita da funesti presagi. Poco prima di partorire Paride, infatti, Ecuba ebbe un incubo nel quale lo vide trasformarsi in una torcia che avrebbe dato fuoco a Troia e all’intera regione. Ciò spinse i sovrani a esporre il neonato sulle pendici del monte Ida, dove fu allattato da un’orsa e poi preso in cura da un pastore di nome Agelao. Divenuto adulto, Paride rivelò doti non comuni nel tiro con l’arco e nella difesa degli armenti, tanto da suscitare la simpatia di tutti i pastori locali. Le donne, invece, lo ammiravano per la sua bellezza, così eccezionale che persino la ninfa dei boschi Enone si innamorò di lui, sposandolo e dandogli un figlio, Corito. Dopo essere stato riammesso a corte, Paride lasciò Enone per Elena, l’incantevole figlia di Zeus e Leda, con la quale generò quattro figli: tre maschi, Agano, Bugono e Ideo, e una femmina, Elena. Nessuno di essi, però sopravvisse al padre: ancora in fasce, infatti, restarono uccisi nel crollo di un soffitto durante l’assedio di Troia.

IL GIUDIZIO FATALE

Alla figura di Paride si lega uno degli episodi più celebri della mitologia greca, quello relativo alla gara di bellezza tra Era, Afrodite e Atena. Secondo la leggenda, mentre erano in corso le nozze tra il re di Ftia, Peleo, e la Nereide Teti, la dea della discordia Eris, offesa per non essere stata invitata, lanciò tra i partecipanti alla festa un pomo d’oro che recava incisa la scritta “alla più bella”. Subito, tra Era, Afrodite e Atena scoppiò un violento diverbio su chi tra loro meritasse il pomo. Alla fine Zeus, stufo di quel litigio e timoroso che esso potesse minare l’unità dell’Olimpo, decise di affidare a un umano il compito di risolvere la questione. La scelta cadde su Paride, un bellissimo pastore del monte Ida noto per la sua bellezza nelle faccende amorose. Avvicinato da Ermes, il giovane dapprima rifiutò il ruolo di giudice, ma poi si lasciò convincere e ascoltò le tre dee, che peroravano ciascuna la propria causa condendola con promesse e adulazioni. Parlò per prima Era, che lusingò Paride offrendogli in cambio del suo “voto” grandi ricchezze e il dominio sull’intero mondo. Poi fu la volta di Atena, che tentò di trarre dalla sua parte il giovane assicurandogli l’invincibilità in battaglia. Infine prese la parola Afrodite, che si limitò a garantire a Paride l’amore di Elena di Sparta, la più bella tra le donne. A Paride parve che quest’ultima fosse la promessa più allettante, e decretò la vittoria di Afrodite. In tal modo, senza saperlo, aveva sancito la rovina di Troia. Già presente in forma embrionale nelle pagine dell’Iliade, il mito del concorso di bellezza tra le dee fu sviluppato soprattutto da scrittori di epoca post-omerica come il greco Luciano di Samosata e i latini Ovidio e Igino. Di esso si occuparono anche i mitografi razionalisti, che tentarono di “normalizzare” la leggenda interpretando l’apparizione delle tre dee come un sogno di Paride assopitosi sul monte Ida.


ELENA RAPITA

Dopo che Afrodite gli ebbe promesso Elena, Paride lasciò la ninfa Enone e, sotto la protezione della dea, si imbarcò per Sparta. Secondo una tradizione, la stessa Afrodite diede ordine a Enea, l’eroe troiano, di scortare Paride in questo viaggio. Una volta giunti a Sparta, i due ospiti furono accolti dai Dioscuri, i fratelli di Elena, e condotti alla corte di Menelao, che li ricevette con tutti gli onori. Poi, dovendo recarsi a Creta, per un funerale, il re spartano affidò gli stranieri alle cure della moglie Elena, raccomandandole di tenerli presso di sé fino a che essi l’avessero voluto. In breve, il fascino di Paride fece breccia nel cuore della regina, che riunì tutti i tesori a cui aveva accesso e, abbandonata la figlia Ermione a Sparta, fuggì con Paride verso Troia. Il viaggio dei due amanti fu tutt’altro che sereno: una violenta tempesta scatenata da Era sospinse infatti la loro nave fino a Sidone, in Fenicia, dove Paride si dimostrò una volta di più subdolo tradendo l’ospitalità del re e saccheggiando la città. Sfuggito all’inseguimento dei Fenici, Paride approdò infine a Troia, dove il vecchio Priamo, evidentemente immemore del sogno di Ecuba e incurante delle profezie della figlia Cassandra, lo accolse con grande affetto. Ben presto, tuttavia, dalla Grecia giunsero cattive notizie: Elena, infatti, prima di sposare Menelao, aveva avuto tra i suoi pretendenti tutti i più grandi eroi greci, tranne forse Achille. E questa schiera di principi, indignata per il “rapimento” di Elena, aveva deciso di vendicare l’oltraggio subito da Menelao, affiancandolo in una spedizione che si proponeva di punire Paride e riportare Elena in Grecia. Era l’inizio della guerra di Troia.

LONTANO DALLA BATTAGLIA

Malgrado tra le sue vittime figurino intrepidi guerrieri come Menestio ed Euchenore, secondo la tradizione il comportamento di Paride nella guerra di Troia fu tutt’altro che valoroso: oltre ad essere battuto da Menelao in duello, infatti, egli cercò in ogni modo di sottrarsi ai combattimenti, tanto che il fratello Ettore dovette rimproverarlo aspramente alla presenza di Elena per convincerlo a scendere in campo.

NASCOSTO IN UNA NUBE

Durante l’assedio di Troia, Paride affrontò il rivale Menelao in un duello che avrebbe dovuto decidere a chi spettasse Elena senza ulteriori spargimenti di sangue. Sconfitto, il principe troiano si salvò solo grazie all’intervento di Afrodite, che lo nascose dentro una spessa nube sottraendolo ai colpi dell’avversario.

IL RIFIUTO DI ENONE

Alla caduta di Troia, Paride fu ferito dal greco Filottete con una delle frecce avvelenate che erano appartenute a Eracle. Agonizzante, chiese alla prima moglie Enone, che aveva doti di guaritrice, un antidoto contro il veleno che lo stava uccidendo. Ma la ninfa, ancora offesa per l’abbandono patito dall’ex marito, si rifiutò di aiutarlo, attendendo che morisse. Poi però, pentita, si suicidò, gettandosi nella pira funebre su cui ardeva il corpo di Paride.


L’UCCISIONE DI ACHILLE

Secondo il racconto omerico, l’atto più glorioso compiuto da Paride durante la guerra di Troia fu l’uccisione di Achille, trafitto al tallone con una freccia. Anche su questo episodio, tuttavia, molti autori antichi (tra cui lo stesso Omero) nutrono dei dubbi: la maggior parte, infatti, sottolinea come a indirizzare la freccia verso l’unico punto vulnerabile di Achille sia stato non tanto Paride quanto Apollo, che in tal modo avrebbe dato compimento al destino dell’eroe. Altre versioni del mito sostengono invece che la freccia sia stata tirata direttamente da Apollo, sia pure nei panni di Paride; e altre ancora attribuiscono la morte di Achille a un agguato tesogli dallo stesso Paride nel tempio di Apollo Timbreo, a Troia, dove Achille era entrato disarmato. Secondo questa versione del mito, Achille, sul finire della sua vita, si sarebbe innamorato di Polissena, una delle figlie di Priamo. Per lei sarebbe stato anche pronto a passare tra le fila nemiche, se Paride, uccidendolo, non avesse cancellato anche l’ultima possibilità per Troia di scampare alla distruzione.

OMAGGI POSTCLASSICI

La fortuna postclassica della figura di Paride comincia già nel medioevo con l’Historia Destructionis Troiae, di Guido delle Colonne, e l’Ovide Moralisè, poema trecentesco anonimo in cui il principe troiano impersona l’uomo che si lascia travolgere dalla bellezza materiale, non curandosi della saggezza e del potere. Paride compare anche nel Faust di Wolfgang Goethe, nel poema Oenone di Alfred Tennyson, nei drammi Troilo e Cressida di William Shakespeare e La guerra di Troia non si farà di Jean Giraudoux. In campo pittorico, gli episodi del giudizio di Paride e del ratto di Elena sono stati raffigurati, tra gli altri, da Cranach il Vecchio, Peter Paul Rubens, Pierre-August Renoir e Paul Gauguin. Notevoli alcuni nudi di Paride scolpiti da Antonio Canova, mentre la musica ha omaggiato l’eroe omerico con l’opera Paride ed Elena di C.W. Gluck.

martedì 26 giugno 2012

IDRA DI LERNA


Il solo guardarla metteva paura, perché era un gigantesco mostro a nove teste che emergeva all’improvviso dalle paludi, divorando chiunque si trovasse nei dintorni. Ma ben pochi potevano vantarsi di averla vista da vicino, in quanto l’Idra di Lerna era così velenosa che il suo respiro poteva uccidere a decine di metri di distanza. Tanta pericolosità, tuttavia, non le bastò per salvarsi da Eracle, il grande eroe greco, che si recò nel suo rifugio e, insieme al nipote Iolao, riuscì a ucciderla.
L’Idra di Lerna è certamente uno dei mostri più terrificanti mai concepiti dalla fantasia greca. Il suo alito era letale come quello di un drago, e delle sue nove teste, otto ricrescevano non appena tagliate, mentre l’ultima era immortale. Tutti fattori che rendevano l’Idra una formidabile “macchina da guerra”, invincibile per chiunque tranne che per il divino Eracle.

GENEALOGIA DELL’IDRA DI LERNA

Tutte le fonti antiche concordano nel far discendere l’Idra di Lerna da una delle coppie più feconde e spaventose della mitologia greca: quella formata dall’orribile Tifone e dall’ancora più ripugnante Echidna. Il primo era un essere mostruoso descritto ora come bufera devastante, ora come drago o gigante, ma comunque generato dall’unione primordiale tra la madre terra Gaia e gli oscuri abissi del Tartaro. Su Echidna, la donna-vipera, i pareri dei mitografi erano invece discordi: il poeta greco Esiodo ne attribuiva la nascita agli amori acquatici tra Forcide e Ceto, divinità marine tanto potenti quanto temute; per altri autori, invece, essa sarebbe stata figlia di Gaia e Tartaro, come Tifone, oppure del fiume infernale Stige e di un misterioso compagno di nome Piro. Comunque sia, non c’è dubbio che la “Vipera”, com’era denominata, sia stata la capostipite della popolosa stirpe di mostri che infestava la Terra al tempo degli eroi. Da lei, infatti, sarebbero nati non solo la Chimera, la Sfinge e Cerbero, generati con Tifone e fratelli quindi dell’Idra, ma anche creature non meno terrificanti come il Leone di Nemea e il mostro di Beozia, Fice, frutto entrambi della sua relazione contro natura con il cane a più teste Ortro.

L’ALITO CHE UCCIDE

Allevata da Era appositamente per eliminare l’odiato Eracle, figlio illegittimo del marito Zeus, l’Idra di Lerna viveva in una zona paludosa ai margini della città di Argo, nella regione dell’Argolide. La sua tana si trovava sotto un platano nei pressi della fonte Amimone, sgorgata dal suolo dopo che Poseidone lo ebbe trafitto con il tridente; ma il raggio d’azione della belva si estendeva ben oltre la sua “base logistica”, abbracciando la palude e, forse, l’intera regione. Sull’aspetto dell’Idra esistevano varie leggende: in genere la si descriveva come un enorme serpente a sei o nove teste, ma c’era chi le attribuiva un corpo di cane, e chi sosteneva che le sue teste fossero più di cento. Alcuni, addirittura, ipotizzavano che dal corpo squamoso dell’Idra spuntassero teste umane. Dotata di un respiro mefitico, tanto che bastava passarle accanto mentre dormiva per restare soffocati, l’Idra di Lerna terrorizzava da anni la regione di Argo, assalendo i viandanti, razziando il bestiale, inaridendo i pascoli con il suo alito. Per questo gli abitanti di Argo accolsero con sollievo l’arrivo di Eracle che, con la protezione di Atena e l’appoggio del nipote Iolao, eliminò l’Idra nella seconda delle sue dodici fatiche. Secondo la leggenda, mentre egli mozzava una dopo l’altra le teste del mostro, Iolao con il fuoco cauterizzava le ferite sanguinanti, in modo da impedire la ricrescita dei monconi. Per la testa centrale, resa immortale da Era, l’eroe dovette invece agire diversamente: così, dopo averla tagliata, Eracle la seppellì sotto un tumulo di pietre, da dove non poteva più nuocere. Eliminato il mostro, Eracle ne fece a pezzi il corpo e, con il suo sangue, avvelenò la punta delle proprie frecce. Ciò, molto tempo dopo, sarebbe costato la vita al centauro Chirone, ferito accidentalmente da un dardo di Eracle, e sarebbe stato anche all’origine di una terribile moria di pesci nel fiume Anigro, inquinato dalle frecce dell’eroe.


NIPOTE E COMPAGNO

Coprotagonista dello scontro con l’Idra di Lerna, Iolao era figlio di Ificle, fratellastro di Eracle, e di sua moglie Automedusa. Ciò spiega probabilmente il forte attaccamento del giovane nei confronti dello zio, che accompagnò in molte imprese e del quale fu, secondo alcuni, l’amante. Così Iolao compare al fianco di Eracle nella lotta contro il brigante Cicno, nella missione per recuperare i buoi del gigante Gerione, nell’attacco contro Troia. Il giovane fece anche parte, insieme allo zio, della spedizione degli Argonauti e della squadra di eroi che diedero la caccia al cinghiale calidonio. Quando Eracle ruppe il suo matrimonio con Megara, alla quale aveva ucciso i figli in un accesso di follia provocato da Era, la diede in sposa proprio al nipote Iolao. I due ebbero insieme anche una figlia, Leipefile, il cui nome significa “l’amore di colei che è stata abbandonata”: un riferimento esplicito al dolore patito da Megara per il divorzio dal marito. Dopo la morte di Eracle, Iolao andò in aiuto dei suoi figli, in particolare di quelli che l’eroe aveva avuto dalle cinquanta figlie di Tespio, e li condusse con sé in Sardegna. Lì Iolao, insieme a Megara, costituì una colonia greca, alla quale, in un secondo tempo, si unì anche Dedalo, l’architetto del labirinto di Creta. I tre fondarono insieme molte città, tra le quali l’odierna Olbia, e Dedalo le abbellì con una serie di edifici che gli antichi chiamavano “costruzioni dedaliche”. Ormai anziano, il nipote di Eracle tornò in Grecia attraverso la Sicilia, dove alcuni dei suoi compagni si unirono alla popolazione dei Sicani. Altri autori, tuttavia, sostengono che Iolao morì in Sardegna, circondato dall’affetto dei suoi sudditi i quali, per onorarlo, gli attribuirono culti sacri.

IL TRONFO ALLE OLIMPIADI

Grande auriga e ottimo atleta, Iolao trionfò con il carro di Eracle ai primi giochi olimpici, istituiti proprio dal celebre zio, e più tardi si impose anche ai giochi funebri indetti in onore di Pelia, re di Iolco, ucciso da un sortilegio di Medea.

LO SCONTRO CON CICNO

Quando Eracle sfidò Cicno, un violento predone che assaliva i viandanti per offrirne poi i crani al padre Ares, Iolao lo sostenne guidando il suo carro da guerra e aiutandolo a spogliare il defunto della sua pesante armatura.

UNITI NELLA SVENTURA

Compagno fedele delle vittorie di Eracle, Iolao gli fu al fianco anche nell’esilio impostogli dal cugino e re di Tirinto Euristeo. Fu lui, inoltre, ad accompagnare l’eroe sul monte Eta e ad assistere alla sua morte sul rogo e alla successiva apoteosi.


IL RITORNO

Secondo la leggenda, dopo la morte di Iolao, il crudele re di Tirinto, Euristeo, cugino e persecutore di Eracle, tornò ad accanirsi contro i figli dell’eroe, i cosiddetti Eracleidi. Allora Iolao implorò Zeus di poter tornare in vita per un solo giorno e, riavute come per icanto forza e giovinezza, sfidò Euristeo in battaglia, catturandolo. Poi lo condusse davanti ad Alcmena, la madre di Eracle, e le lasciò decidere quale pena infliggere al prigioniero. Alcmena ordinò che fosse decapitato e Iolao, prima di tornare nell’Ade, eseguì di persona l’esecuzione.

IMMORTALE DI RIFLESSO

Il successo postclassico del personaggio di Eracle, eroe evergreen, garantì di riflesso una certa popolarità anche all’Idra di Lerna. Così l’orrendo rettile trova spazio, tra Medioevo e Rinascimento, in dipinti, tra gli altri, di Antonio Pollaiolo, Francisco de Zurbaràn e Maarten van Heemskerck. Meno frequenti le citazioni letterarie del mostro, che tuttavia compare in Le fatiche di Ercole, dello spagnolo Enrique de Villena, e negli Adagia di Erasmo da Rotterdam. Anche Victor Hugo, nei Miserabili, cita allegoricamente l’Idra: “Il giorno in cui…l’uomo avrà definitivamente aggiogato…la triplice Chimera antica, l’idra, il drago e il grifone, egli sarà quello che gli dèi erano una volta per lui.” In tempi più recenti, l’Idra è il nome di una organizzazione criminale del mondo a fumetti Marvel e un mostro inviato da Ade contro Eracle nel film Hercules della Disney.

sabato 16 giugno 2012

EFESTO (VULCANO)


Secondo Omero era brutto e di pessimo carattere, ma con una forza enorme e un’abilità manuale che rendeva meraviglioso qualsiasi oggetto uscisse dalle sue officine di fabbro. In quanto dio del fuoco, ovvero di uno degli elementi primari del cosmo, Efesto era uno degli dèi più potenti dell’Olimpo, anche se meno popolare di Zeus o Poseidone. Tra le sue conquiste vi erano Afrodite, la più affascinante tra le dee, e Aglaia, una delle tre Grazie: quasi un’allegoria della necessità di fondere bellezza e tecnica per dare vita all’arte.
Identificato con il latino Vulcano, Efesto era noto soprattutto per la sua vendetta ai danni della moglie Afrodite, che punì per le sue infedeltà intrappolandola in una rete invisibile ed esponendola, insieme all’amante Ares, allo scherno degli altri dèi. Ma sul dio del fuoco esistevano molte altre leggende, quasi tutte relative alla sua infanzia: un periodo infelice caratterizzato dal ripudio della madre Era e dal lungo esilio sulla Terra.

GENEALOGIA DI EFESTO

Sulla nascita di Efesto esistono due miti contrapposti. L’uno, di origine omerica, fa discendere il dio del fuoco dalle nozze tra Zeus ed Era, i sovrani dell’Olimpo, che insieme avrebbero generato quattro figli: oltre a Efesto, anche il dio della guerra Ares e le due sorelle Ilizia e Ebe. Secondo una tradizione post-omerica, invece, Era avrebbe dato alla luce Efesto da sola, senza l’aiuto di Zeus, per gelosia nei confronti del marito che, a sua volta, aveva generato Atena senza l’apporto del sesso femminile. Divergenti su tutto, queste due tradizioni concordano nel descrivere Efesto come debole e malaticcio, sorprendentemente fragile per essere il figlio di una coppia come Zeus ed Era. Il suo riscatto sarebbe avvenuto solo in età adulta, quando, conquistato un posto tra gli Olimpi, si sarebbe affermato come il fabbro degli dèi. Risalgono a quest’epoca le più celebri avventure amorose di Efesto, spesso favorite dalla sua abilità nel fabbricare gioielli. E sempre a questo periodo si fa risalire la nascita dei suoi figli, tra i quali lo scultore Ardalo, figlio di Aglaia, l’argonauta Palemone e il brigante Perifete. Quanto a Erittonio, futuro re di Atene, sarebbe nato dalla dea della Terra Gaia, fecondata involontariamente da Efesto mentre tentava, senza successo, di possedere Atena.

UN DIO “FOCOSO”

La maggior parte dei miti su Efesto riguardano l’origine della sua zoppia. Secondo Omero, essa sarebbe stata provocata da uno scatto d’ira di Zeus, furibondo con il figlio perché, durante un litigio tra lui e la moglie Era, aveva preso le difese della madre. Così Zeus, per punire l’intromissione, afferrò Efesto per un piede e lo scagliò giù dall’Olimpo. La caduta del dio durò un giorno intero. Alla fine egli piombò sull’isola di Lemno, dove fu trovato e rianimato dagli abitanti del luogo. Ma rimase per sempre sciancato. Un’altra leggenda sostiene invece che la zoppia di Efesto fosse congenita, e che la madre Era se ne vergognasse al punto da volerla nascondere alle altre divinità. Così la dea gettò Efesto ancora neonato giù dall’Olimpo. Il bimbo cadde nell’Oceano, dove due divinità marine lo salvarono e lo accudirono fino all’adolescenza. Poi Efesto riebbe il suo posto sull’Olimpo, ma non scordò mai il comportamento crudele della madre, di cui si vendicò regalandole un trono magico: non appena Era vi si sedette, comparvero dal nulla decine di catene d’acciaio che la imprigionarono allo schienale. Inutilmente gli altri dèi si sforzarono di liberare la dea. Solo Efesto poté riuscirvi e, per farlo, pretese in cambio da Zeus la mano di Afrodite, la più desiderata ma anche la più capricciosa tra le dee. Ebbe così inizio uno dei matrimoni più infelici dell’Olimpo: Efesto non aveva occhi che per la moglie, ma lei lo tradiva con tutti, e in particolare con Ares, il signore della guerra, che del marito era anche fratello. Finché Efesto non perse la pazienza e, svergognati i due amanti di fronte all’Olimpo, chiese a Zeus di poter divorziare. Non si sa esattamente che cosa gli rispose Zeus, ma è plausibile che la sua richiesta venisse accettata, visto che le fonti mitologiche attribuivano e Efesto molte altre mogli: tra queste, oltre alla bellissima Aglaia, vi fu anche la ninfa siciliana Etna, figlia di Urano e Gaia, nonché l’amatissima nereide Cabiro, con la quale generò due misteriose divinità chiamate Cabiri.


SCETTRI, ELMI, ARMATURE

La tradizione elenca un gran numero di oggetti magici o meravigliosi che sarebbero stati realizzati da Efesto nelle sue officine. Oltre ai monili regalati a Teti ed Eurinome, fanno parte di questo elenco anche lo scettro di Zeus, il bastone di Agamennone, l’elmo di Ermes, le armature di Achille ed Enea, le frecce di Apollo, il carro di Elio. A Efesto viene attribuita inoltre la creazione di Pandora, la prima donna.

IL PATRONO DEI FABBRI

Nella Grecia arcaica, Efesto era ritenuto semplicemente il dio del fuoco, che alimentava con grande abilità nelle sue fucine e proteggeva dai tentativi degli uomini di impadronirsene. Poiché tuttavia con il fuoco era possibile fondere e lavorare i metalli, ecco che la sua figura si caricò presto di altri significati: egli divenne così anche il patrono della metallurgia e dei fabbri, oltre che il protettore degli artigiani e degli scultori, che utilizzavano la fiamma per le loro opere. Ai poteri di Efesto venivano spesso ricondotte le eruzioni dei vulcani, nei cui crateri, secondo alcuni miti, erano collocate le officine del dio. Ed Efesto cominciò ad essere celebrato anche come nume degli inventori, in quanto, come Dedalo sulla Terra, era capace di qualunque prodigio tecnico o costruttivo. Di pari passo al numero dei poteri attribuitigli, crebbe anche la diffusione del suo culto. Da manifestazione circoscritta a poche aree dell’Asia Minore, esso si estese a gran parte della Grecia, coinvolgendo in particolare le città a più forte vocazione artigianale come Atene. Anche sull’isola di Lemno, sede dell’esilio terreno del dio, il culto per Efesto fece molti proseliti. E così in molte altre isole vulcaniche (tra cui Lipari, in Sicilia), che si contendevano l’onore di ospitare nel sottosuolo le fucine del dio. In epoca romana la devozione per Efesto (o meglio, per Vulcano) trovò nuovo slancio. La sua immagine in forma di statua, collocata davanti al focolare, era considerata una presenza benefica capace di preservare la casa dagli spiriti maligni. E anche il numero dei templi in suo onore crebbe, sebbene molti fossero costituiti fuori dalle città per timore dei poteri distruttivi del dio.

L’INVENZIONE DEL FUOCO

Benché fosse il dio del fuoco, Efesto non ne era però considerato l’inventore. Questo merito veniva attribuito infatti a Ermes, il dio messaggero, che secondo l’Inno omerico aveva raccolto in un fosso della legna secca ed era poi riuscito a darle fuoco, diffondendo ovunque calore e luce.

LA FOLGORE DI ZEUS

Tra i molti prodigiosi oggetti di cui si attribuiva la costruzione a Efesto, vi era anche la folgore di Zeus, che altri racconti mitologici sostengono invece fosse stata forgiata dai Ciclopi, desiderosi di sdebitarsi con il signore dell’Olimpo per averli sottratti all’oscura prigionia del Tartaro.


LA FUCINA MAGICA

La fucina di Efesto viene descritta in mille modi e collocata nei luoghi più svariati. Di certo si trovava sotto terra, ma non si sa se nel fondo di qualche vulcano o sotto lo splendido palazzo del dio, indistruttibile e splendente come una stella. Costruita dallo stesso Efesto, conteneva tra le altre cose l’incudine del dio e una serie di mantici che lavoravano spontaneamente al suo comando. Della dotazione della fucina facevano parte anche venti tavolini a rotelle, che si spostavano motu proprio da un punto all’altro dell’officina portando gli attrezzi a chi ne aveva bisogno. Con Efesto lavorava poi una schiera di automi, tutti d’oro, che obbedivano istantaneamente a ogni suo ordine. Il dio, inoltre, poteva avvalersi dell’aiuto dei Ciclopi, suoi aiutanti dai tempi lontani della Titanomachia, instancabili nel lavoro e dotati di un’abilità strabiliante nella fusione e forgiatura dei metalli.

IL DIO E IL BARONE

La presenza di Efesto nell’arte postclassica è legata soprattutto al celebre episodio della trappola con cui egli imprigionò Afrodite e Ares. A questo tema si ispirarono infatti, per i loro poemi, letterati di fama quali Francesco Bracciolini (Lo scherno degli dèi) e Ferrante Pallavicino (La rete di Vulcano), nonché una schiera di pittori tra i quali l’olandese Maarten van Heemskerck. Molto comune anche la raffigurazione della fucina di Efesto, dipinta, tra l’altro, da Andrea Mantegna e Jan Brueghel il Giovane. In tempi più recenti, la figura del dio è comparsa in alcuni libri della saga Percy Jackson e gli dèi dell’Olimpo, dello statunitense Rick Riordan, e nel film di Terry Gilliam Le avventure del barone di Munchausen (1988), dove il protagonista, nel tentativo di salvare una città assediata, sprofonda in una fucina dove lavorano Vulcano e i Ciclopi.

lunedì 11 giugno 2012

POLLUCE


Privo di un’identità individuale distinta da quella del gemello, Polluce differiva tuttavia da Castore per la maggior abilità pugilistica, arte nella quale svettava su chiunque altro, e per la natura immortale. Era un formidabile guerriero, temuto e ammirato in tutta la Grecia, e uno sposo fedele. A lui si attribuivano molte vittorie ai Giochi Olimpici e la fondazione, insieme a Castore, della città di Dioscuria, nella Colchide.
Intrepido e generoso come il gemello, Polluce abusò talvolta della sua forza, come quando, insieme a Castore, rapì le due figlie del principe Leucippo, già promesse in spose a un’altra coppia di eroi. Un ratto, quello delle Leucippidi, che garantì ai Dioscuri una discendenza, ma che segnò anche la fine della loro parabola terrena.

GENEAOLOGIA DI POLLUCE

Nato dalla passione tra una principessa, Leda, e il sommo Zeus, Polluce vantava un albero genealogico più nobile di quello del gemello Castore, che invece aveva origini totalmente umane. Tra i suoi antenati figuravano infatti, tramite il padre Zeus, divinità primordiali come il Titano Crono e sua moglie Rea, oltre naturalmente al potentissimo Urano, fondatore della stirpe divina dei Titani. Per parte di madre, invece, Polluce discendeva (come il gemello Castore) da Testio, grande re dell’Etolia, a cui si attribuiva come genitore nientedimeno che Ares, il dio della guerra: un nonno davvero all’altezza di due combattenti instancabili come i Dioscuri. A differenza di altri semidei, Polluce ebbe una vita sentimentale piuttosto tranquilla. L’unico amore che gli si attribuisce è quello per la moglie Febe, una delle due figlie di Leucippo, sorella di quella Ileira che divenne invece la sposa di Castore. Le due coppie ebbero, a detta di molti autori, anche dei figli, ma le fonti greche non ci tramandano i loro nomi né dettagli sulle loro vite.

INSIEME PER L’ETERNITÀ

Inseparabili sin dall’adolescenza, i Dioscuri compirono insieme molte imprese: sia in vita, quando furono tra gli eroi più celebrati della loro epoca, sia da semidei, quando per esempio trascinarono i Locresi alla vittoria su Crotone nella battaglia della Sagra. Una sola volta, agirono separati: fu quando, durante la spedizione degli Argonauti, giunsero nel paese dei Bebrici, tiranneggiato da un sovrano di nome Amico. Questi, approfittando della sua stazza, sfidava a pugilato gli stranieri entrati nel suo regno e, dopo averli sconfitti, li uccideva. Toccò dunque a Polluce, in virtù delle sue doti di pugile, affrontare il gigante, che si arrese all’eroe e gli giurò di non mancare più di rispetto agli stranieri. A parte questo episodio, i Dioscuri combatterono sempre in coppia, per tutta la vita e anche oltre. Quando Castore morì per mano di Ida, infatti, Polluce chiese a Zeus di seguirne il destino, rinunciando all’immortalità che gli era stata concessa. Così Zeus divinizzò entrambi i gemelli, e da quel momento i Dioscuri si trasformarono in una sorta di coppia-fantasma, avvistata spesso in città durante le guerre e le esercitazioni militari. Addirittura, si raccontava che in un caso i due gemelli avessero visitato in incognito anche la loro casa natale, divenuta di proprietà di un certo Formione. Questi, non riconoscendo i Dioscuri nei due stranieri che gli chiedevano ospitalità, si rifiutò di farli dormire nella loro vecchia stanza, dove ora era alloggiata sua figlia. Ciò provocò l’ira di Castore e Polluce, e la loro immediata vendetta. Il mattino seguente, quando Formione andò a svegliare la figlia, non trovò più traccia di lei né dei suoi beni. Nella stanza erano rimasti solo una statua dei Dioscuri e un rametto profumato appoggiato sul tavolo.

DUE STELLE A DELFI

Nella battaglia navale di Egospotami, il fantasma dei Dioscuri combatté al fianco degli Spartani che, dopo la vittoria sugli Ateniesi, appesero nel tempio di Delfi due stelle votive in onore dei gemelli. Queste stelle sparirono misteriosamente dopo la battaglia di Leuttra, vinta dai Tebani, che segnò la fine dell’egemonia spartana sul Peloponneso.


CACCIA AL CINGHIALE

I Dioscuri fecero parte del manipolo di eroi (tra cui Teseo e Giasone) che partecipò alla caccia del cinghiale calidonio, la mostruosa belva inviata da Artemide contro il regno di Oineo, signore dei Calidoni. Il loro ruolo nell’impresa fu tuttavia marginale. A uccidere l’animale fu infatti Meleagro, figlio dello stesso Oineo, che lo trapassò con il suo giavellotto dopo un lungo inseguimento.

GEMELLI CELESTI

Non tutti i mitografi antichi condividevano l’idea che Castore e Polluce fossero stati divinizzati. Secondo alcuni essi erano stati semplicemente trasformati in astri da Zeus, che in tal modo aveva creato la costellazione dei Gemelli.

L’INGANNO E LA VENDETTA

Durante la seconda guerra messenica, due guerrieri messeni di nome Gonippo e Panormo suscitarono l’indignazione dei Dioscuri travestendosi come loro e provocando una strage tra gli Spartani. Il fatto accadde nel corso di una cerimonia in onore dei divini gemelli: due lancieri entrarono nel campo nemico al galoppo, indossando tuniche bianche, montando candidi cavalli e sfoggiando berretti a forma di guscio d’uovo. Ingannati da quel travestimento, gli Spartani si inginocchiarono per adorarli, e i falsi Dioscuri ne approfittarono per infilzare decine di guerrieri con le loro lance. Dopo questo atto sacrilego, Castore e Polluce, offesi, ostacolarono in ogni modo l’offensiva dei Messeni e, quando il loro comandante Aristomene tentò di assalire nottetempo Sparta, che rischiava di capitolare, intervennero in prima persona sotto forma di fantasmi per rintuzzare l’attacco.

GEMELLI DIFFERENTI

Le coppie di gemelli sono tutt’altro che inconsuete nel mito greco. Oltre ai Dioscuri, che sono forse i più famosi, hanno un posto di rilievo nella mitologia Cleobi e Bitone, devoti di Era e per questo premiati dalla dea con un sonno eterno; e Autolico e Filammone, celebrati l’uno per l’astuzia e l’altro per le sue doti musicali. Anche un altro dei figli di Zeus, Eracle, aveva un fratello gemello, Ificle, nato a una notte di distanza da lui. Figlio di Alcmena e del marito Anfitrione, Ificle, pur meno coraggioso di Eracle, lo affiancò in molte imprese, tra cui la spedizione contro Troia; ma quando l’eroe, per volere di Era, impazzì, Ificle fu vittima della sua follia, poiché Eracle gli uccise due figli. Meno controverso il rapporto tra la Ida e Linceo, i due rivali dei Dioscuri, che però alcuni considerano semplicemente fratelli. Sovrapponibili per valore e complementarietà ai più celebri Castore e Polluce (dei quali erano cugini per parte di padre), ne condivisero anche molte imprese, tra cui la ricerca del Vello d’oro e la caccia del Cinghiale calidonio. Rispetto ai Dioscuri, tuttavia, Linceo e Ida avevano fisionomie più distinte: del primo era nota la vista acutissima, che penetrava persino le pareti, mentre Ida era ritenuto l’uomo più forte mai esistito, tanto che neppure Apollo (a sua volta gemello di Artemide), quando si scontrò con lui per il possesso della bellissima Marpessa, riuscì a soverchiarlo. Nel panorama della mitologia greca, figurano moltissimi altri gemelli celebri, come i Molionidi, uccisi da Eracle, o gli Aloadi, fulminati da Zeus. Il podio della popolarità spetta però certamente a una coppia romana, Romolo e Remo, i fondatori dell’Urbe: due gemelli su cui sono sorte decine di leggende e che, a seconda dei casi, sono considerati figli di Marte e della vestale Rea Silvia, di Enea e Dessitea oppure di Latino e Roma, un’eroina troiana da cui l’Urbe avrebbe preso il nome.


DIOSCURI CONTEMPORANEI

Nell’arte moderna, la figura dei Dioscuri ricorre forse più spesso che non nei secoli precedenti. Sono i musicisti del XVIII secolo, in particolare, a rilanciare il mito dei gemelli spartani, attraverso opere e lieder firmati tra gli altri, da Johann Adolph Hasse, Jean-Philippe Rameau e, più tardi, Franz Schubert. In campo letterario, i due gemelli sono ricordati nella Medea di Pierre Corneille e nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, oltre che in liriche di Friedrich Holderlin e Hans Gstettner. Al mito di Castore e Polluce hanno dedicato alcuni loro dipinti due grandi interpreti dell’arte novecentesca come Carlo Carrà e Giorgio De Chirico, mentre il regista John Woo, nel suo film Face/Off (1997), ha voluto che i due criminali protagonisti della vicenda si chiamassero Castor Troy e Pollux Troy, ironico omaggio ai mitologici gemelli e alla cultura classica in genere.

sabato 9 giugno 2012

CASTORE



È uno dei due Dioscuri, gli inseparabili gemelli che, a Sparta, erano adorati come invincibili guerrieri ed emblemi della vocazione bellica della città. Quasi sempre raffigurati in coppia, erano praticamente indistinguibili nell’aspetto, salvo che per le cicatrici che, secondo alcuni, solcavano il volto di Polluce. Diversi invece i talenti militari dei due: mentre Polluce si segnalava soprattutto per le sue doti di pugile, Castore era un formidabile cavaliere, in grado di domare qualunque purosangue.
Per quanto fossero entrambi adorati come “figli di Zeus” (questo il significato greco del loro nome), i Dioscuri avevano in realtà nature differenti: divina Polluce e umana Castore. A differenza del gemello, Castore era quindi soggetto all’invecchiamento e alla morte: un limite però che non pareva condizionarlo in battaglia, dove, spesso si mostrava più temerario di Polluce.

GENEALOGIA DI CASTORE

La mortalità di Castore era frutto degli strani intrecci amorosi che, secondo il mito, avevano legato Zeus, la regina di Sparta Leda e il marito di quest’ultima Tindaro. Tutto era iniziato, come sempre, dagli insaziabili appetiti erotici del re dell’Olimpo che, avendo visto la bella Leda, se n’era incapricciato e si era congiunto a lei in forma di cigno. Quella stessa notte, però, anche Tindaro aveva voluto giacere con la moglie, e da quel doppio legame erano nate due uova: in una c’erano Castore e Clitemnestra, figli di Tindaro e, quindi, mortali; nell’altra Polluce ed Elena, figli di Zeus e, di conseguenza, divini. Secondo un’altra versione del mito, l’uovo espulso da Leda sarebbe stato uno solo, e avrebbe contenuto Polluce ed Elena; la nascita di Castore e Clitemnestra sarebbe invece avvenuta in modo del tutto naturale. Una terza versione della leggenda sostiene infine che Leda avrebbe soltanto trovato l’uovo con Castore ed Elena, nato dagli amori tra Zeus e la divina Nemesi; oppure che l’avrebbe ricevuto da un pastore, dopo che questi l’aveva scoperto in un bosco; o, ancora, che le sarebbe stato posto in grembo da Ermes, con il compito di conservarlo fino alla schiusa. In tutti questi casi, Leda sarebbe dunque la madre naturale del solo Castore, mentre Polluce sarebbe a tutti gli effetti un figlio adottivo.

STORIE PARALLELE

Castore e Polluce sono gli eroi dorici per eccellenza, legati quindi a quel nucleo di città greche (tra cui Sparta) che, nella potenza di Atene, vedevano un ostacolo alla loro ascesa. Non stupisce quindi che, nel più celebre tra i miti ad essi dedicati, i due gemelli si trovino a dover competere con Teseo, l’eroe attico. Accadde quando questi, invaghitosi di Elena, sorella dei Dioscuri, la rapì e la portò con sé ad Atene facendone la sua amante. L’offesa non passò inosservata a Sparta, che affidò ai suoi due guerrieri più celebri il compito di vendicare l’onta. I due Dioscuri raccolsero perciò attorno a sé un grande esercito e, alla sua guida, devastarono l’Attica, momentaneamente lasciata senza difese da Teseo (sceso agli Inferi con l’amico Piritoo). Poi liberarono Elena dalla fortezza in cui era stata rinchiusa e, per rendere più compiuta la vendetta, fecero prigioniera la madre di Teseo, che condussero a Sparta come ostaggio. Dopo questa impresa, i Dioscuri si aggregarono alla spedizione degli Argonauti, dove il loro valore risaltò soprattutto nella sosta presso i Bebrici, un popolo della Bitinia. I due gemelli, inoltre, aiutarono Giasone a saccheggiare Iolco, la sua città natale, su cui regnava illecitamente Acasto, figlio di Pelia. I Dioscuri, invece, malgrado il legame di sangue con Elena, non figurano tra i protagonisti della guerra di Troia, in quanto all’epoca erano già stati divinizzati. Tale divinizzazione fu la conseguenza della morte di Castore, ucciso in combattimento, e del rifiuto di Polluce, il gemello immortale, di sopravvivergli. Allora Zeus, colpito dall’affetto tra i due Dioscuri, decise di non separarli neppure da morti, ed elevò entrambi in cielo. Stabilì però che Castore e Polluce condividessero, oltre al destino degli dèi, anche quello degli uomini, trascorrendo insieme un giorno all’Olimpo e uno agli Inferi, tra i defunti.


IL TEMPIO E L’UOVO

La prima città a tributare onori divini ai Dioscuri fu Sparta, che li scelse come suoi patroni ed eresse un tempio in memoria delle loro due spose, Ileira e Febe, dette le Leucippidi: dal soffitto di questo edificio, costruito presso la casa natale dei due gemelli, pendeva un guscio avvolto in fasce, probabilmente una reliquia identificabile con l’uovo partorito da Leda. A Sparta, l’intera vita pubblica era regolata dal culto per i Dioscuri: i due gemelli, secondo il mito, presiedevano alle manifestazioni pubbliche, vigilavano sulle cerimonie, proteggevano i giovani combattenti, sovraintendevano alle esercitazioni militari. La loro effigie simbolica, rappresentata da due pali di legno uniti da due traverse, accompagnava sempre i condottieri in battaglia. E la stessa struttura politica della polis retta da una diarchia di sovrani, appariva come un omaggio alla duplicità dei Dioscuri. Da Sparta, il culto per Castore e Polluce si irradiò in tutta la Grecia, contagiando l’Attica e persino le colonie dell’Italia meridionale. Questa espansione fu favorita dalla convinzione, presente già in epoche remote, che Castore e Polluce proteggessero i naviganti, grazie al potere concesso loro da Poseidone di comandare le onde e i venti. A questi attributi salvifici, certo apprezzati da un popolo di marinai, se ne assommavano poi altri: i Dioscuri, infatti, erano considerati gli inventori delle danze guerresche, i numi tutelari delle manifestazioni sportive, i protettori dei poeti. Erano ritenuti anche i patroni dei cavalieri, e tale credenza contagiò il mondo romano, dove gli equites, i membri della cavalleria, svolgevano ogni ano, il 15 luglio, una solenne processione in onore dei Dioscuri.

I CAVALLI DI POSEIDONE

Nel mondo greco, i Dioscuri venivano in genere raffigurati come due giovani atletici e seminudi, armati di lance e accompagnati da cavalli bianchi ottenuti in dono da Era e Poseidone. Sul capo, solitamente scoperto, portavano talvolta un insolito elmo a forma di guscio sormontato da una stella.

LA BATTAGLIA SUL LAGO

Nel mondo romano, il culto dei Dioscuri (conosciuto come Castori) aveva radici antichissime. Di certo doveva essere già diffuso all’epoca della battaglia sul lago Regillo, quando l’esercito romano, sul punto di cedere all’offensiva dei Latini, fu salvato, secondo il mito, proprio dall’intervento di Castore e Polluce. I due gemelli, invocati dal dittatore Aulo Postumio Albino, che in cambio promise di consacrare loro un tempio, si materializzarono all’improvviso alla testa della cavalleria romana, trascinandola al contrattacco. Poi, a vittoria ottenuta, scomparvero. Li incontrarono di lì a poco alcuni cittadini dell’Urbe, a cui i due gemelli, mentre abbeveravano i cavalli presso la fonte Diuturna, annunciarono il successo in battaglia. Dopo questo trionfo, Aulo Postumio Albino tenne fede al suo voto, e consacrò ai Dioscuri un grande tempio proprio nel cuore dell’Urbe, in pieno Foro Romano, a pochi passi dalla fontana dove i due gemelli si erano mostrati per l’ultima volta ai cittadini romani.


INSEPARABILI DALLA NASCITA

La presenza dei Dioscuri nell’arte postclassica è sporadica e spesso marginale. In epoca medievale, la storia della loro nascita occupa per esempio le pagine iniziali della Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne e alcuni versi della Teseida di Giovanni Boccaccio. Più centrale il ruolo dei Tindaridi (questo l’altro nome dei Dioscuri) nell’omonima tragedia di Antoine Danchet, che attraverso il loro mito affronta il tema dell’amore fraterno. In campo pittorico, a parte casi isolati come un affresco seicentesco di Pietro da Cortona, i Dioscuri sono sempre raffigurati in coppia e nel ruolo di comprimari. Si sottraggono a questa regola un celebre olio su tela di Pieter Paul Rubens dedicato al ratto delle Leucippidi (le due sorelle poi sposate dai Dioscuri) e la vasta schiera di dipinti che raffigurano la loro nascita e il mito di Leda.