sabato 17 dicembre 2011

NARCISO


Col suo mito si sono confrontati artisti, teologi, scrittori, studiosi di ogni epoca. Difficile sottrarsi al fascino del giovane semidio così innamorato della propria immagine riflessa da lasciarsi morire per l’impossibilità di possederla. Eppure, alle origini del mondo greco, la storia di Narciso era considerata niente più che una fiaba pedagogica: un apologo destinato ai giovani sull’inutilità della bellezza senza amore.
Nel mito greco la bellezza è spesso considerata una maledizione. Causa di gelosie, odi, vendette feroci, può costare la vita a chi la possiede, come Adone, oppure produrre guerre rovinose come nel caso di Elena di Troia. Anche Narciso è una vittima della propria avvenenza: amato e desiderato da chiunque lo incontri, egli sfugge l’amore come una disgrazia, attirandosi così l’ira degli dèi che, per castigo, lo faranno innamorare di se stesso.

GENEALOGIA DI NARCISO

Per le sue origini familiari Narciso può essere definito un figlio dell’acqua. Suo padre, infatti, è un dio fluviale, Cefiso, che come tutti i fiumi discende dall’unione tra Oceano, antica personificazione dell’elemento liquido che circonda la Terra, e la moglie Teti. La madre di Narciso, invece, è una Naiade, Liriope, una delle centinaie di ninfe che popolano le sorgenti, i laghi, i ruscelli del mito greco. Un giorno, mentre stava facendo il bagno nelle acque del fiume Cefiso, Liriope fu violentata da dio, che la imprigionò con le sue onde e la possedette contro la sua volontà. Da questo stupro nacque Narciso, che dalla madre ereditò la bellezza fuori dal comun, mentre dal padre prese il carattere asociale. Genealogie differenti, peraltro abbastanza controverse, attribuiscono invece la paternità di Narciso al pastore Amirinto, devoto compagno di Artemide, la dea della caccia, oppure al re dell’Elide Endimione, che avrebbe generato il giovane con Selene, dea della luna.

IL MITO SECONDO OVIDIO

Del mito di Narciso esistono varie versioni, spesso contrastanti tra loro. La più celebre è quella del poeta latino Ovidio che per scriverla rielaborò presumibilmente materiali greci preesistenti. In questa versione del mito, Narciso è un giovane bellissimo che sin dalla nascita suscita attrazione in chiunque lo incontri. Ancora in fasce, la madre Liriope lo porta dal veggente Tiresia per avere lumi circa il suo futuro. La risposta dell’indovino è oscura: Narciso vivrà a lungo purché non conosca se stesso. Una volta cresciuto, Narciso diventa l’oggetto del desiderio di un gran numero di ninfe, verso le quali però ostenta un’indifferenza prossima al disprezzo. Infine si invaghisce di lui la ninfa Eco, a cui Era, per punizione, aveva tolto l’uso della parola: Eco infatti l’aveva ingannata distraendola con le sue chiacchere durante le scappatelle extraconiugali del marito Zeus. A seguito di questa punizione, Eco non può più parlare autonomamente, ma solo ripetere le ultime parole pronunciate da qualcun altro. Ecco perché, quando si innamora di Narciso, anziché tentare di sedurlo apertamente lo segue per settimane di soppiatto nei boschi, riecheggiando tutto ciò che dice nella speranza di suscitare così la sua attenzione. Infine, stremata dal pedinamento, esce allo scoperto e tenta di baciarlo, ma Narciso la respinge con sgarbo e fugge nei boschi. Senza più ragioni per vivere, la ninfa di ritira in un luogo solitario e muore: di lei resterà solo l’eco della bellissima voce. La triste sorte della ninfa ha però commosso Nemesi, feroce dea della vendetta, che decide di punire Narciso per la sua spietatezza: un giorno in cui egli si è avvicinato per bere ad una limpida fonte, la dea fa in modo che si innamori del bellissimo volto che lo fissa nell’acqua. Incantato, Narciso lo contempla per ore, senza rendersi conto che si tratta della propria immagine riflessa. Quando infine scopre l’abbaglio, per la disperazione si lascia morire, e sul luogo dove è spirato spunta un fiore che porterà il suo nome, Narciso. Quanto alla sua anima, anche nell’Oltretomba non smetterà di inseguire il volto amato, di cui cercherà invano di individuare il riflesso nelle acque scure dello Stige.


LE ALTRE VERSIONI

Dal racconto di Ovidio si dissociano altre versioni del mito, in genere più antiche, che tendono a ridimensionare o cancellare del tutto il ruolo della ninfa Eco. In una di queste versioni, elaborata in area tebana, Narciso è un giovane della città di Tespi vanamente amato da un altro giovane, di nome Amenia, che lo corteggia insistentemente. Incapace di liberarsi dallo scocciatore, e d’altra parte indifferente alle gioie d’amore, Narciso finisce per inviare al suo pretendente la propria spada, affinché si suicidi. Amenia, affranto, soddisfa il desiderio dell’amato, ma prima di morire invoca su di lui la maledizione degli dèi, che lo esaudiscono. Così Narciso s’invaghisce del proprio riflesso e, sconsolato per l’irrealizzabilità del suo amore, si toglie la vita – come Amenia – trafiggendosi con la spada. Una variante dello stesso mito racconta invece che Narciso morì annegato, nel vano tentativo di afferrare la propria immagine che vedeva riflessa nell’acqua. Del tutto divergente rispetto a questa tradizione mitologica è invece il racconto di Pausania, scrittore e geografo greco del II secolo d.C. Secondo il “razionalista” Pausania, l’ipotesi che Narciso possa aver scambiato il proprio riflesso per una persona reale, innamorandosene, è palesemente inverosimile. Egli perciò ipotizza che il giovane avesse una sorella di nome Narcisa, che gli somigliava in modo straordinario. Quando la fanciulla morì, il fratello sprofondò nella più cupa depressione. Finché un giorno, specchiandosi in una fonte limpidissima, scambiò il proprio volto riflesso nell’acqua per quello della sorella, e ciò per un attimo alleviò il suo dolore. Da allora Narciso, pur sapendo benissimo di stare ingannando se stesso, prese l’abitudine di recarsi alla fonte, desideroso di rivivere per qualche istante il miracolo di veder tornare Narcisa dall’Aldilà.


NARCISO MODERNO

Il mito di Narciso attraversa l’arte e la cultura occidentale dal Medioevo fino a oggi. Tra le più antiche  rielaborazioni del testo ovidiano vi è quella offerta dal Novellino, raccolta di novelle in prosa del XII secolo dove Narciso è un cavaliere cortese collocato sullo sfondo di una natura incantata. Più vicine a noi la rilettura barocca del mito offerta da Giambattista Marino, ne L’Adone, e quelle novecentesche di Andrè Gide (Il Trattato di Narciso), Umberto Saba (la poesia Narciso al fonte) ed Herman Hesse (Narciso e Boccadoro). Se nella psicanalisi il termine narcisismo è usato da Otto Rank e Sigmund Freud per designare un disturbo nevrotico della personalità, in pittura la dimensione omoerotica del mito è percepibile nei dipinti di Salvator Dalì (Metamorfosi di Narciso, 1936) e Benczùr Gyula (Narcissus, 1881), laddove il preraffaelita John Waterhouse preferisce immergere l’episodio di Eco e Narciso in un’atmosfera arcana e medievaleggiante. 

domenica 13 novembre 2011

AFRODITE (VENERE)


Era la dea dell’amore, del desiderio, della fecondità. Identificata a Roma con Venere, un’antica divinità italica, con la sua bellezza ammaliava uomini e dèi, scatenando attrazioni fatali in chiunque la incontrasse. Eppure anche per lei, talvolta, il dolce ardore della passione poteva avere qualche risvolto amaro.
Affascinante, sensuale, seducente, ma anche volubile e capricciosa, Afrodite era ritenuta dagli antichi una dea “pericolosa”. La sua bellezza, infatti, aveva il potere di risvegliare gli aspetti più istintivi e irrazionali dell’animo umano, scatenando passioni e gelosie che spesso avevano un epilogo tragico.

GENEALOGIA DI AFRODITE

Sulla nascita di Afrodite esistono due diverse tradizioni: la più antica risale a Omero e fa della dea dell’amore la figlia di Zeus e Dione, una misteriosa divinità nata dalle nozze tra Urano e Gaia.
Nella Teogonia di Esiodo, invece, si sostiene che Afrodite nacque dalla spuma del mare fecondata dai genitali di Urano quando questi fu evirato dal figlio Crono. Secondo questa versione del mito, Afrodite, una volta emersa dalle acque, sarebbe stata trasportata dagli Zefiri fino a Citera, e poi di lì a Cipro, dove avrebbe toccato per la prima volta la terraferma facendo spuntare una tenera erba sotto i suoi piedi.
Una versione alternativa vuole invece che Afrodite sia nata in una conchiglia, e che all’interno delle sue valve sia stata trasportata sulla spuma del mare fino a Citera.
In quanto dea dell’amore, Afrodite ebbe molte avventure, e altrettanti figli. Di questi nessuno nacque dal suo matrimonio sfortunato con Efesto, dio del fuoco. Numerosi furono invece i figli generati dalla sua relazione con Ares, tra cui Eros, Phobos (la Paura) e Armonia, “colei che riunisce”. Dalla sua relazione con Anchise nacque invece Enea, l’eroe troiano a cui il latino Virgilio attribuiva la fondazione di Roma.

DOPPIA NATURA

Il culto di Afrodite nel mondo classico ha probabilmente radici remote. Si ritiene infatti che nella figura della dea emersa dalla spuma del mare riecheggino antiche mitologie orientali. In particolare Afrodite è spesso assimilata ad Ashtoret (o Astarte), la Grande Madre fenicia, adorata da tutti i popoli di lingua semitica e legata ai riti di fertilità e desiderio. Come Astarte (e ancor più come la sua antesignana, la babilonese Ishtar), anche Afrodite è in qualche misura una divinità a due facce: da un lato benefica, in quanto connessa ai riti di amore, pietà e maternità; dall’altro terribile, poiché legata alle forze più oscure della Terra (da qui la sua identificazione a Sparta, a Cipro e sull’isola di Citera, con la dea della guerra). Questa dualità si riflette anche nella personalità di Afrodite che emerge dai miti: se nella maggior parte dei racconti Afrodite è celebrata per la sua bellezza e seduttività – così irresistibile da soggiogare persino il padre Zeus – in altri casi il suo potere sugli altri assume forme brutali e vendicative. Così per esempio, Afrodite è ritenuta da molti autori responsabile della morte di Ippolito, colpevole solo di essersi consacrato ad Artemide e non a lei.
E nel mito ovidiano di Eros e Psiche, la gelosia nei confronti della bellissima fanciulla amata dal figlio induce Afrodite a sottoporla a ogni sorta di tormenti.
Anche per la latina Venere, che prima dell’influenza greca era una divinità secondaria del pantheon romano, la dualità è un aspetto costitutivo della sua natura. E tuttavia nell’Urbe la dea dell’amore assume anche un’inedita valenza politica. Venere infatti inizia a essere venerata come patrona della gens Iulia (la stirpe imperiale) e come madre di Enea, il fondatore di Roma. E in tale veste acquisisce il ruolo di protettrice dell’impero, una funzione pubblica che alla greca Afrodite non è mai stata concessa.


L’AMANTE INQUIETA

Attorno alla figura di Afrodite sono sorte diverse leggende, non riconducibili a un corpus unitario ma frammentarie e spesso contraddittorie. Molte prendono spunto dall’infelice matrimonio della dea con Efesto, lo storpio dio del fuoco, a cui il padre l’aveva destinata a sua insaputa. Per sfuggire alla gabbia di un matrimonio combinato, Afrodite tradì il marito con un gran numero di amanti, e soprattutto con Ares, che amò di una passione infuocata. Al dio della guerra Afrodite restò fedele anche dopo che il marito, avendola sorpresa a letto con il rivale, intrappolò i due amanti con un’invisibile rete metallica e li espose alla derisione degli altri dèi. Un’umiliazione che spinse Afrodite a trascorrere un periodo di esilio a Cipro, la sua isola preferita, lontano dagli occhi di tutti; ma che non le impedì, una volta tornata sull’Olimpo, di riprendere le sue tresche amorose con gli altri dèi, tornando a tradire il marito, oltre che con Ares, anche con Dioniso ed Ermes.
Non solo, la dea ebbe anche diverse avventure (per la verità non tutte a lieto fine) con umani, tra cui i bellissimi Adone e Anchise.
Accanto ai racconti di soggetto erotico, il corpus mitologico su Afrodite ne propone poi altri di contenuto più cupo, spesso volti a sottolineare la natura vendicativa della dea. Così, quando le donne dell’isola di Lemno smisero di adorarla, la dea le punì affliggendole con un odore nauseabondo che indusse i mariti a lasciarle e a tradirle con prigioniere tracee. E quando le figlie di Cinira, re di Cipro, la disonorarono con il loro comportamento, ella le castigò costringendole a prostituirsi con stranieri. Al pari degli altri dèi dell’Olimpo, Afrodite partecipò poi alla guerra di Troia, nella quale parteggiò per i Troiani. Il suo favore non salvò la città dalla rovina, ma permise almeno alla stirpe troiana di sopravvivere, grazie a Enea che Afrodite protesse nella sua fuga verso Roma.

L’INGANNO AD ANCHISE

Innamoratasi del bel pastore Anchise, Afrodite, per non intimorirlo, si finse una principessa frigia, e in tale veste lo sedusse e lo amò. Poi, quando Anchise scoprì l’inganno, lo rassicurò circa il suo destino (il giovane, infatti, temeva di essere punito da Zeus per aver amato un dea) e gli annunciò che il figlio nato dalla loro unione avrebbe conquistato gloria eterna.

BELLO DA MORIRE

Già in fasce Adone era così bello che Adrodite, vedendolo, lo volle tenere con sé. In seguito la dea si invaghì del giovane e ne fece il suo amante. E forse proprio questa sua scelta costò la vita ad Adone, incornato da un cinghiale che, secondo la leggenda, fu aizzato contro di lui da Ares, geloso del favore accordato da Afrodite al pericoloso rivale.


PIGMALIONE E GALATEA

Nelle sue Metamorfosi Ovidio racconta il mito di Pigmalione, antico re di Cipro che si innamorò della statua di donna da lui stesso scolpita. Folle d’amore per quella scultura, Pigmalione supplicò infine Afrodite di dare vita alla sua creazione. Preghiera che la dea esaudì, facendo sì che la statua si trasformasse in una donna in carne ed ossa. Pigmalione la sposò e dall’unione tra il sovrano e Galatea (questo il nome della donna) nacque una figlia, che a sua volta generò Cinira, fondatore nella città di Pafo di uno dei più importanti santuari greci consacrati ad Afrodite.

SEDUZIONE PERICOLOSA

L’archetipo di Afrodite quale femme fatale seducente a al tempo stesso pericolosa non ha mai cessato di affascinare artisti e poeti. Tra Medioevo e (tardo) rinascimento, per esempio, la dea è tra le protagoniste di opere di grande ambizione come La Teseide di Giovanni Boccaccio, I Lusiadi di Luis Vaz de Camoes, e Venere e Adone di William Shakespeare. Per non parlare della sovrabbondante produzione pittorica incentrata sulla dea, tra cui dipinti di Andrea Mantegna, Giorgione, Tiziano e Sandro Botticelli. Nell’Ottocento romantico la dea dell’amore viene celebrata da Ugo Foscolo nel poemetto incompiuto Le Grazie. Più dissacrante la rivisitazione del mito effettuata nel 1932 da Salvador Dalì, che ridipinge la Venere di Milo (la più celebre statua classica su Afrodite) trasformandola in una bellezza surreale con cassetti a scorrimento.

domenica 30 ottobre 2011

EROS


L’amore ai tempi dei Greci aveva due volti: quello lontano e indecifrabile di Afrodite e quello, beffardo, del figlio Eros, un fanciullo alato che, con le sue frecce, scatenava passioni irrefrenabili nel cuore degli uomini. Una divinità, Eros, in cui si incarnava il volto più primordiale del desiderio, tanto sfrenato e irrazionale da soggiogare al suo potere persino degli dèi.
Dispettoso, irrequieto, crudele: così i poeti greci descrivevano Eros, un fanciullo alato che svolazzava qua e là per il mondo, infiammando i cuori con le sue frecce scoccate a caso. Nessuno, per quanto anziano o potente, poteva sottrarsi alle sue saette. Gli stessi dèi non erano immuni alle ferite di Eros che, scatenando i sensi, mettevano in pericolo la pace dell’Olimpo.

GENEALOGIA DI EROS

Vi sono differenti versioni sulle origini di Eros, identificato spesso nel mondo romano con Cupido. Nelle più antiche genealogie era considerato un dio primordiale, scaturito dal Caos insieme alla Terra. Tradizioni più recenti lo ritenevano invece figlio di Afrodite, che lo avrebbe generato con Ermes oppure con il padre Zeus, che quindi era contemporaneamente genitore e nonno del neonato. Una leggenda tarda attribuiva la maternità di Eros a Iris, l’Arcobaleno, che sarebbe stata fecondata da Zefiro, il vento dell’Ovest. Di tutte le possibile genealogie di Eros, la più consolidata tra gli antichi era però quella che lo riteneva frutto dell’ardente passione tra la dea dell’amore Afrodite e il dio della guerra Ares. Dall’unione tra i due dèi, allietata dalla nascita di numerosi figli, sarebbero stati generati anche Antero, dio dell’amore corrisposto, e Armonia, l’unificatrice, colei che appiana dissidi e favorisce la concordia tra i coniugi. A sua volta Eros, sposando Psiche, avrebbe generato Piacere, dalla cui soddisfazione dipende la sopravvivenza del genere umano.

ADORATO E TEMUTO

I testi mitologici più antichi descrivono Eros come una divinità primordiale, antica come Gaia (la Madre Terra), potente come nessun’altra, adorata dagli adepti sotto forma di pietra grezza.
Sulle sue origini i pareri erano discordi: alcuni mitologi lo facevano discendere dal Caos, il vuoto abisso da cui si era generata ogni cosa, mentre altri ritenevano che fosse nato dall’Uovo Primordiale, le cui due metà costituivano l’una la Terra e l’altra il Cielo. A prescindere dalle divergenze sulla sua origine, Eros era comunque ritenuto da tutti una forza travolgente, creativa e distruttiva insieme, fondamentale nell’assicurare la continuità della specie e la stessa coesione interna del Cosmo. Solo il filosofo Platone, nel Convivio, si dissociò da questa visione divinizzata del desiderio sessuale: a suo dire, infatti, Eros altri non era che un demone, un intermediario tra gli uomini e gli dèi, sempre alla ricerca del suo oggetto del piacere e quindi perennemente inquieto e insoddisfatto.
Finita l’epoca delle grandi riflessioni filosofiche, con la civiltà classica la figura di Eros si fissò in quella che sarebbe diventata la sua iconografia tradizionale: un bambino alato che si compiace di scatenare la passione nei cuori umani, ferendoli con le sue frecce d’oro (ma Eros dispone anche di frecce di piombo per cancellare il desiderio) o incendiandoli con le sue torce. Si moltiplicarono anche le leggende sul dio, spesso rappresentano nei panni di deus ex machina. È il caso per esempio del mito di Dafne e Apollo. Qui Eros fa innamorare il dio della ninfa recalcitrante, per vendicarsi delle sue continue canzonature. Al di là di questi racconti, dai contenuti lievi e spesso licenziosi, resta comunque costante, anche in epoca classica e poi alessandrina, la percezione di Eros come un dio pericoloso e inaffidabile: un fanciullo che la stessa madre Afrodite mostrava di temere, e del quale i poeti greci non mancavano mai di evidenziare la potenza accecante, capace di sconvolgere la mente umana e, quindi, di sovvertire ogni ordine familiare o sociale.


AMORE E PSICHE

Il più celebre mito dedicato a Eros compare nell’unico romanzo in latino giunto fino a noi, le Metamorfosi di Lucio Apuleio (II sec.d.C). Racconta la storia d’amore tra Eros (o Amore) e Psiche, una giovanissima principessa il cui nome, in greco, significa “anima”. Dotata di una bellezza sovrumana, Psiche si attirò la gelosia di Afrodite, che chiese al figlio Eros di farla innamorare del più abietto tra gli uomini. Eros però le disobbedì, stregato a sua volta dalla fanciulla, e fece in modo che Psiche fosse trasportata dal vento in un palazzo incantato, dove si univa a lei ogni notte senza svelarle il suo volto. Dopo qualche tempo, tuttavia, Psiche cominciò a soffrire di malinconia, poiché di giorno era sempre sola: ottenne così da Eros il permesso di rivedere le sue sorelle. Queste però, vedendo i regali che Psiche aveva donato loro, e sentendo la sua gioia per l’amante, furono vinte dalla gelosia, e la convinsero che il misterioso visitatore notturno fosse in realtà un pericoloso mostro. Al suo rientro a palazzo, Psiche nascose perciò una lampada a olio sotto il letto e attese che Eros si addormentasse per vederne il volto: scoprì così di essere amata da un bellissimo dio alato. Accadde però che una goccia di olio bollente cadesse dalla lampada sulla spalla di Eros, che si risvegliò e, offeso dall’inganno di Psiche, la abbandonò. Folle di dolore, la ragazza vagò di città in città alla ricerca dell’amato. Giunse infine nel palazzo di Afrodite che, memore dell’antica rivalità, la imprigionò e la costrinse a fatiche improbe. L’ultima di questa consisteva nel recuperare l’acqua della giovinezza da Persefone, regina dell’Aldilà. Psiche scese agli Inferi ma, sulla via del ritorno, cedette alla tentazione e aprì la boccetta, cadendo in un sonno mortale. Allora Eros, che dall’Olimpo aveva seguito tutte le peripezie dell’amata, la raggiunse e la risvegliò con una freccia. Quindi la portò sull’Olimpo, dove ottenne da Zeus il permesso di sposarla. I due amanti poterono così coronare il loro sogno d’amore, allietato dalla riconciliazione tra Psiche e Afrodite.


L’AMORE CARNALE

Nella letteratura postclassica Eros perde i suoi connotati di divinità per trasformarsi in un archetipo dell’amore terreno. In tale veste lo si ritrova in opere medievali – per esempio il poema cortese Roman de la Rose di Guillame de Lorris – o seicentesche (come le commedie Cynthia’s Revels, di Ben Jonson e El amor enamorado, di Lope de Vega). Anche la poesia non disdegna il mito di Eros, che ha ispirato versi di J.W. Goethe, A.C. Swinburne e R.M. Rilke. Nell’arte figurativa, a partire dal periodo gotico, Eros è stato spesso interpretato come personificazione dell’amore carnale contrapposto a quello divino. Ma altrettanto frequenti sono letture allegoriche diverse: Eros dormiente, per esempio, è il simbolo del sonno del desiderio; Eros in lacrime l’immagine della castità forzata (come nella Danae di Rembrandt); Eros bendato l’emblema dell’accecamento amoroso; Eros che lotta con il fratello Antero la raffigurazione dello scontro tra amore fisico e spirituale.

venerdì 14 ottobre 2011

LE SIRENE


Il loro potere risiedeva nella voce, così incantevole e ammaliante da stregare chiunque la ascoltasse. Ecco perché le Sirene erano tanto temute da chi navigava per mare: il loro canto accecava la mente umana e conduceva le navi alla rovina.
Nell’immaginario greco, il mare era un universo affollato da creature misteriose, spesso ostili nei confronti degli uomini. Tra queste, le sirene erano le più temute e insidiose, perché con il loro canto potevano ammaliare i marinai conducendoli al naufragio. Un richiamo a cui soltanto pochi eroi, come Ulisse o il cantore tracio Orfeo, erano in grado di resistere.

GENEALOGIA DELLE SIRENE

La nascita delle sirene è in genere attribuita al dio fluviale Acheloo, che le avrebbe generate con la ninfa Tersicore, figlia di Zeus e Mnemosine. Alcuni autori ritengono tuttavia che la madre delle sirene fosse in realtà Sterope, figlia di re Portaone ed Eurite, oppure una delle nove Muse: Tersicore, Melpomene o Calliope. Quanto al padre, chi respingeva la paternità di Acheloo puntava su Forco, antico dio degli abissi che, con la moglie Ceto, aveva popolato il suo regno di numerosi mostri marini. Tra tutte le leggende fiorite sulle origini delle sirene, la più affascinante è però quella elaborata nel IV secolo d.C. dal filosofo Libanio. Secondo questo erudito siriano, la nascita delle sirene sarebbe infatti avvenuta durante il duello tra Acheloo ed Eracle per la conquista della bella Deianira. Come racconta Ovidio, in quell’occasione Eracle ebbe la meglio sul rivale staccandogli un corno dalla fronte. E dalle gocce di sangue che caddero nell’acqua nacquero del sirene, che, secondo questa leggenda,  si sarebbero autogenerate.

DEMONI DEL MARE

Le sirene sono citate per la prima volta nell’undicesimo canto dell’Odissea. È la maga Circe a mettere in guardia Ulisse dal pericolo rappresentato da questi mostri marini nascosti su un’isola dell’Italia meridionale. E l’eroe di Itaca sa far tesoro dei consigli dell’amante, vanificando con l’astuzia i poteri di questi demoni dal canto soave.
Nel racconto omerico, le sirene sono figure ancora abbastanza indistinte. Nulla ci viene detto del loro aspetto (forse perché ben noto ai Greci dell’epoca attraverso altri racconti mitologici), né dei loro nomi. Solo la loro pericolosità viene rimarcata: grazie alle voci suadenti, le sirene sono in grado di attirare a sé i marinai che transitano vicino alla loro isola, facendoli incagliare sugli scogli.
Poi uccidono i sopravvissuti al naufragio e li divorano.
Gli autori successivi ad Omero si sforzano di definire meglio la natura e fisionomia delle Sirene. Innanzitutto ne fissano il numero in quattro (o tre, secondo altre fonti). Poi ne determinano i nomi: Telete, Redne, Molpe e Telsiope secondo alcuni, Pisinoe, Aglaope e Telsiepia (o Partenope, Leucosia e Ligia) secondo altri. Anche sul loro aspetto le informazioni si fanno più dettagliate. Si tratta di orribili esseri antropomorfi, con fattezze femminili ma il corpo da volatile (l’immagine della donna-pesce si affermerà solo in epoca medievale). Quanto all’isola su cui vivono, i poeti latini la collocano lungo le coste campane, al largo della penisola di Sorrento, contraddicendo così Omero che l’aveva situata nel Mare di Sicilia.
La ridefinizione postomerica della figura delle sirene riguarda anche le loro prerogative. Se nei testi più antichi sono sempre descritte come mostri marini, a partire dall’epoca classica cominciano ad essere collegate anche al mondo dell’Aldilà, dove si trasformano in divinità sostanzialmente benevole: con il loro canto melodioso, infatti, hanno il compito di consolare le anime dei defunti appena giunte nell’Oltretomba, rassicurandole prima dell’incontro fatale con Persefone, moglie di Ade e spietata regina degli Inferi.

PESCI O UCCELLI?

Nell’iconografia classica, le Sirene sono in genere rappresentate come esseri alati, con fattezze femminili e artigli robusti. In qualche caso la parte inferiore del corpo è sostituita da un uovo. Non di rado il volto è barbuto. Solo nel VII secolo d.C., con il bestiario Liber Monstrorum, comparve l’immagine della Sirena con coda di pesce.




VENDETTA DIVINA

Molti autori attribuivano l’aspetto mostruoso delle Sirene a una vendetta di Demetra, dea della Terra, che aveva così voluto punirle per non essersi opposte al ratto della figlia Persefone (con cui stavano giocando) da parte di Ade.

SFIDA ALLE MUSE

Secondo Apollodoro, le Sirene formavano un terzetto in cui una cantava, un’altra suonava la cetra e la terza il violino. Ed erano tanto brave da volersi porre in competizione con le Muse, che per punizione strapparono loro le piume e le usarono come ornamento.

PROVA D'AMICIZIA


La versione più commovente della trasformazione delle Sirene in demoni alati è stata elaborata da Ovidio nelle Metamorfosi. Secondo il poeta latino, infatti, le Sirene erano in origine bellissime fanciulle legate da una tenera amicizia a Persefone, figlia di Zeus e Demetra. Quando costei fu rapita da Ade, dio degli Inferi, e trascinata a forza nell’Oltretomba, le Sirene non seppero darsi pace. Girarono in lungo e in largo la terra finché, disperate, non chiesero agli dèi di far crescere loro le ali per poter cercare l’amica anche in cielo e nel mare.





SCONFITTE DA ORFEO


Le Sirene sono legate a due episodi celebri del mito greco. Quando Ulisse, durante il viaggio di ritorno verso Itaca, passò vicino all’isola su cui abitavano, le Sirene fecero di tutto per sedurre lui e i suoi compagni con il canto. Ma l’eroe riempì le orecchie dei suoi marinai di cera, in modo che non sentissero quella musica fatale. Poi chiese ai suoi compagni di legarlo all’albero maestro della nave, ordinando loro di non liberarlo per nessuna ragione: potè così soddisfare la sua curiosità di ascoltare il canto delle Sirene senza esserne sopraffatto.
Nel mito degli Argonauti, è invece Orfeo, il più grande musico dell’antichità, a sfidare le Sirene. Accadde quando la nave che recava Giasone e i suoi compagni alla ricerca del Vello d’Oro, si trovò a navigare nei pressi della loro isola. Subito nell’aria si diffuse un canto celestiale. Ma Orfeo, che faceva parte dell’equipaggio, imbracciò la sua cetra, e trasse dalle corde una musica così struggente che nessuno dei suoi compagni (tranne Bute) provò il desiderio di buttarsi in mare per raggiungere l’isola. Dopo l’umiliazione subita da Orfeo (ma talvolta l’episodio viene anticipato ai tempi del passaggio di Ulisse), le Sirene salirono su un’alta rupe e si suicidarono. Nel loro destino era infatti scritto che non sarebbero sopravvissute all’incontro con un uomo che avesse resistito al loro canto.



SIRENE D'AMORE


Con la caduta dell'impero romano, l'iconografia classica delle Sirene - mostri alati dalle sembianze femminili - si estingue. Al suo posto comincia ad affermarsi il nuovo canone della donna-pesce, che nell'arte romantica diventa il simbolo della duplicità della natura umana. Anche il pittore Hieronymous Bosch, nel suo Giardino delle Delizie, popola l'Eden di Sirene, tritoni e altre creature acquatiche.

In campo letterario, l'archetipo della donna-pesce ispira al danese Hans Christian Andersen forse la più bella fiaba dell'epoca moderna, La Sirenetta, in cui la protagonista rinuncia all'eternità della vita marina per amore di un uomo. L'amore è protagonista anche del racconto Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, incentrato sulla passione di un anziano grecista per una donna-pesce, e fa da filo conduttore a gran parte dei film dedicati al mito delle Sirene, tra cui il fortunatissimo Splash, una sirena a Manhattan girato da Ron Howard nel 1984.

sabato 8 ottobre 2011

PROMETEO


Era ritenuto dai Greci il più intelligente e saggio dei Titani. Alleato di Zeus nella guerra contro Crono, Prometeo non esitò a rinnegare la sua amicizia con il re dell’Olimpo per donare il fuoco agli uomini, affrancandoli da una condizione di umiliante servitù. Un tradimento che Zeus non gli perdonò mai, condannandolo a un supplizio che sarebbe dovuto essere eterno.
Nel mito antico la figura di Prometeo è descritta in modo ambivalente: da un lato è il trasgressore, il ribelle, colui che si oppone a Zeus sfidando l’ordine divino; dall’altro è l’amico dell’uomo, il benefattore, pronto a spogliarsi della propria divinità pur di aiutare i mortali. Una duplicità in qualche modo già moderna, connaturata a un personaggio sempre in bilico tra generosità e scaltrezza.

GENEALOGIA DI PROMETEO

Cugino di ZEUS e di gran parte degli dèi dell’Olimpo, PROMETEO discendeva come loro da un Titano: suo padre, infatti, era GIAPETO, nato dalla relazione di URANO e GAIA e fratello di CRONO, il padre di Zeus. Sulla madre di Prometeo, invece, gli antichi avevano le idee confuse: la maggior parte riteneva che fosse CLIMENE, una ninfa nata dagli amori marini tra OCEANO e TETI; ma c’era anche chi faceva il nome di ASIA, un’altra Oceanina, e addirittura chi riteneva che a generare Prometeo fosse stata ERA, ingravidata con la violenza da un giovane di nome EURIMEDONTE. Pochi dubbi invece sui fratelli di Prometeo; erano tre, tutti più rozzi di lui: il violento ATLANTE, il brutale MENEZIO, e il maldestro EPIMETEO, che di Prometeo è un vero e proprio alter ego in negativo. Abbastanza lineare anche la vita familiare di Prometeo. Il Titano ebbe un’unica moglie, CELENO, e con essa generò tre figli, DEUCALIONE, LICO e CHIMEREO. Secondo il drammaturgo Euripide, tuttavia, Prometeo tentò senza successo di sedurre ATENA, la casta dea della guerra, che si era mostrata assai benevola nei suoi confronti insegnandogli l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina e molte altre scienze.

IL FUOCO RUBATO

Nella letteratura classica, Prometeo è sempre descritto come il benefattore del genere umano, colui che diede dignità e coscienza di sé a una stirpe poco amata da Zeus e condanata a vivere nel sottosuolo. La sua opera di emancipazione cominciò nel momento stesso della creazione, quando gli dèi affidarono a lui e al fratello Epimeteo, che però sbagliò nella distribuzione delle risorse e, quando giunse all’uomo, si accorse di non avere più nulla da donargli. Dovette così intervenire Prometeo che, per porre rimedio all’errore, rubò il fuoco agli dèi e lo diede agli uomini. Il suo furto però mandò su tutte le furie Zeus, che fece incatenare il Titano a una roccia e lo punì con uno spaventoso supplizio: ogni giorno un’aquila si avventava su di lui e gli divorava il fegato, che ricresceva durante la notte rendendo eterna la tortura.
A questa versione del mito se ne affianca poi un’altra, secondo la quale l’ostilità tra Zeus e Prometeo ebbe origine in occasione di un solenne sacrificio a Mecone: la vittima sacrificale era un toro e bisognava decidere quale parte delle sue carni destinare a Zeus e quale agli uomini. Prometeo, volendo favorire i mortali, preparò due sacche apparentemente uguali, ma ne riempì una con le sole ossa del toro, rivestite da un appetitoso strato di grasso, l’altra con le parti migliori dell’animale, nascoste sotto un pezzo di scarto. Zeus, ovviamente, scelse la prima sacca e, quando si accorse del raggiro, si vendicò togliendo agli uomini il fuoco. Prometeo, con l’aiuto di Atena, scalò allora il monte Olimpo, rubò dal carro del Sole una scintilla e, nascostala in un tronco cavo, la porto sulla Terra. Gli uomini riebbero così il fuoco, ma Zeus, vedendo dall’alto dell’Olimpo brillare sulla Terra migliaia di falò, si avvide del furto e punì i mortali inviando loro Pandora, l’origine di tutti i guai umani. Quanto a Prometeo, anche in questa seconda versione finisce incatenato a una roccia, vittima di un supplizio da cui solo molto tempo dopo sarebbe stato liberato.

LA CREAZIONE DELL'UOMO

Secondo l’erudito greco Apollodoro, Prometeo non si limitò ad aiutare gli uomini, ma fu lui stesso a crearli, modellandoli con l’acqua e la creta a immagine e somiglianza degli dèi. Poi convocò Atena e la convinse a insufflare il suo soffio vitale nelle creature di fango che aveva plasmato.


LA LIBERAZIONE

Per liberarsi dal suo orrendo supplizio, Prometeo ricorse alle proprie doti profetiche. Egli sapeva infatti da quale donna sarebbe nato il figlio di Zeus che, secondo l’oracolo, un giorno lo avrebbe deposto. Convinse allora il re dell’Olimpo a barattare la preziosa informazione con la fine della sua pena: Zeus consentì a Eracle di liberare Prometeo e apprese così che la donna in questione era la nereide Teti, subito allontanata dall’Olimpo.

IL DONO DELLA PROFEZIA

Le doti di preveggenza non servirono a Prometeo solo per convincere Zeus a porre termine alla sua prigionia. Già in precedenza, ai tempi della Titanomachia, lo avevano salvato dalla rovina spingendolo a schierarsi al fianco di Zeus nella guerra contro Crono, che era sostenuto da tutti gli altri Titani. In seguito il veggente Prometeo fece uso delle sue doti profetiche per indicare a Eracle (impegnato nell’undicesima fatica) come sottrarre i pomi d’oro dal giardino delle Esperidi e, più tardi, per salvare il figlio di Deucalione dal diluvio con cui Zeus intendeva annientare la mai troppo amata stirpe umana.

PANDORA E IL VASO

L’ira di Zeus per il furto del fuoco si riversò, oltre che su Prometeo, anche sugli uomini, colpevoli a suo dire di aver assecondato il Titano. Per questo il signore dell’Olimpo li punì inviando loro Pandora, una bellissima fanciulla forgiata da Efesto con l’aiuto di Atena. A Pandora gli dèi avevano donato ogni sorta di qualità: il fascino, l’abilità manuale, la grazia, la persuasione. Ma Ermes instillò nel suo cuore la menzogna e la furbizia, rendendola così inaffidabile. Quando la creazione di Pandora fu completata, Zeus mandò la ragazza da Epimeteo, il quale restò incantato dalla sua bellezza e, trascurando i saggi consigli del fratello Prometeo (che lo aveva esortato a non accettare doni da Zeus, perché potevano nascondere un inganno), decise di sposarla. Mai errore si rivelò più fatale. Pandora, infatti, aveva portato con sé dall’Olimpo un vaso nel quale erano racchiuse tutte le possibili sciagure destinate agli uomini. Spinta dalla curiosità, la giovane scoperchiò il vaso, e tutte le disgrazie schizzarono fuori, diffondendosi per il mondo. Solo la speranza, che era in fondo al contenitore, rimase nel vaso, perché la fanciulla rimise il coperchio prima che fosse uscita. Grazie a Pandora, Zeus si vendicò così del genere umano, che pagò la sua amicizia con Prometeo ottenendo in sorte una vita piena di guai e tribolazioni.


SFIDA AGLI DEI

Simbolo della tendenza umana a ribellarsi agli dèi, Prometeo ha affascinato sia gli antichi che i moderni. Tra i primi si sono occupati di lui Esiodo, Platone, Eschilo e, in epoca postclassica, Boccaccio e il filosofo Francis Bacon. Molto ricca la produzione letteraria su Prometeo tra XVIII e XIX secolo: se Voltaire vede nel Titano un rivoluzionario che si batte per la libertà, Rousseau lo identifica invece con il corruttore del felice stato di natura, e George Byron con un ribelle in lotta col destino. Nel Novecento il mito di Prometeo – che nei secoli ha ispirato dipinti di El Greco e Rubens, opere musicali di Beethoven e Franz Liszt, drammi teatrali di Calderòn de la Barca e P. Bysshe Shelley – ha avuto interpreti d’eccezione nel filosofo Albert Camus e nello scrittore Andrè Gide, autore di una spiazzante rivisitazione del mito intitolata Prometeo male incatenato.  
  
  

lunedì 3 ottobre 2011

ACHILLE


E’ l’eroe greco per eccellenza, il personaggio del mito che meglio incarna i valori della classicità: la bellezza, il coraggio, il valore quasi sovrumano in battaglia. Sensibile all’amicizia, è rispettoso del volere degli dèi e pietoso verso il nemico. Ma se l’ira lo assale, Achille può diventare spietato verso i suoi stessi alleati.
Nessun altro eroe greco ama la guerra quanto lui. Per Achille combattere è una gioia fisica, un piacere nutrito dal desiderio di conquistare la gloria. Eppure nella sua indole non mancano aspetti più dolci. Come quando piange la morte dell’amico Patroclo o si commuove per il dolore del re troiano Priamo a cui ha ucciso il figlio Ettore.

GENEALOGIA DI ACHILLE

Secondo il mito da Omero, ACHILLE era figlio di un sovrano, PELEO, e d una Nereide, la bellissima TETIDE. Tra i suoi antenati c’era ZEUS che, unendosi alla ninfa EGINA, aveva generato  EACO, padre di Peleo. Quanto alla madre Tetide, era frutto dell’unione tra NEREO, il “vecchio del mare”, e DORIDE, figlia di TETI e di OCEANO. Nell’albero genealogico di Achille c’erano dunque evidenti legami con gli elementi primordiali del cosmo, dall’acqua (attraverso Nereo e Oceano) alla Terra (tramite GAIA, madre di Nereo), fino al cielo (incarnato da URANO, marito di Gaia). A differenza di altri protagonisti del mito, Achille non ebbe una progenie numerosa. Le fonti antiche gli attribuiscono un unico figlio, NEOTTOLEMO, che l’eroe concepì con una delle tante figlie del re di Sciro, Licomede, DEIDAMIA, durante il periodo che trascorse presso quella corte. Neottolemo sarebbe poi diventato a sua volta un valoroso guerriero e avrebbe partecipato, dopo la morte del padre, alla guerra di Troia.

LA PROVA DEL FUOCO

La leggenda di Achille è una della più antiche e variegate dell’intero mondo greco. Resa popolare dall’Iliade, di cui il collerico figlio di Tetide è l’indiscusso protagonista, si è via via arricchita di decine di episodi minori, che hanno dato vita a un ciclo di Achille sovraccarico di varianti spesso contraddittorie. Anche sull’infanzia dell’eroe esistono versioni divergenti. Secondo alcuni il piccolo Achille fu allevato da Tetide alla corte del marito, sotto la guida del precettore Fenice; altri sostengono invece che Achille crebbe lontano dalla madre, tornata nei suoi regni marini per i dissensi col marito circa la sorte da riservare al figlio. Peleo, infatti, intendeva fare di Achille il suo erede sul trono di Ftia, in Tessaglia, mentre l’aspirazione della ninfa Tetide era di regalargli la sua stessa immortalità. Per questo, come aveva fatto con i sei precedenti figli, cercò di purificare Achille con il fuoco, nella speranza che il calore delle fiamme estirpasse in lui le componenti mortali ereditate dal padre. Peleo, però, intuì i piani di Tetide e, strappato il piccolo al rogo, lo portò dal centauro Chirone, che curò il bimbo e sostituì l’osso ustionato del suo tallone con quello di un gigante morto da poco. E poiché questo gigante si era distinto in vita per la rapidità nella corsa, anche Achille ne ereditò le doti, meritandosi l’appellativo di “piè veloce”.


IMMERSO NELLO STIGE

Secondo il poeta romano Stazio, Tetide, per rendere immortale il figlio, non lo espose alle fiamme ma lo immerse, tenendolo per il tallone, nelle acque dello Stige, il fiume degli Inferi. Il bambino divenne in tal modo invulnerabile, a eccezione del tallone che, a causa della presa materna, non fu bagnato dalle acque.

IL MAESTRO CHIRONE

Dopo aver guarito il piccolo Achille, il centauro Chirone si occupò della sua educazione, insegnandogli valori come la sobrietà, l’onestà e il senso dell’onore. Dal suo maestro Achille imparò anche a tirare con l’arco e a suonare la cetra, oltre a impratichirsi nell’equitazione e nella scienza medica.


IN PARTENZA PER TROIA

Una volta adulto, Achille seppe dalla madre quale destino gli era stato riservato dagli dèi: raggiungere la gloria in guerra e morire giovane, oppure vivere a lungo in modo anonimo. Achille, senza esitazioni, scelse la gloria e accettò l’invito di Ulisse di salpare per Troia.

IL TRAVESTIMENTO FALLITO

In aperto contrasto con la tradizione omerica, alcuni autori sostengono che Peleo, avendo saputo da un oracolo che Achille sarebbe morto a Troia, tentò con ogni mezzo di evitare la sua partenza. Ordinò perciò ad Achille di indossare abiti femminili e lo portò alla corte di Licomede, re di Sciro, spacciandolo per una donna. Qui l’eroe visse per nove anni, mescolandosi alle figlie del re e ottenendo il nomignolo di Pirra, ovvero “la Fulva”, per il colore dei suoi capelli. Lo stratagemma funzionò fino a quando Ulisse, al quale l’indovino Calcante aveva predetto che Troia non sarebbe caduto senza l’aiuto di Achille, non venne a sapere dove si nascondeva l’eroe. Egli allora si travestì da mercante e si presentò a Licomede, a cui chiese di poter esporre le sue mercanzie a corte. Ebbe in tal modo accesso agli appartamenti femminili, dove le figlie del re si gettarono su stoffe e gioielli. Achille invece fu attratto da alcune armi che Ulisse aveva astutamente mescolato alla merce. Il travestimento di Achille fu pertanto scoperto e Peleo nulla più poté per impedire al figlio di andare incontro al proprio destino.

L'IRA FUNESTA

L’ira di Achille è il tema portante dell’Iliade di Omero, che racconta gli ultimi 51 giorni della guerra di Troia. In precedenza c’erano stati altri nove anni di schermaglie, durante i quali, secondo la leggenda, Achille aveva alternato imprese gloriose ad azioni di brigantaggio.
Solo con il decimo anno la guerra di Troia entrò nel vivo. A segnare l’inizio di questa nuova fase fu il litigio tra Achille e Agamennone, comandante delle truppe greche a Troia. La lite si scatenò attorno alle sorti di Criseide, figlia di un sacerdote di Apollo. Agamennone l’aveva fatta prigioniera durante un’incursione, ma la conseguenza di questo atto blasfemo fu l’ira di Apollo che, per vendetta, gettò una pestilenza tra i greci. D’accordo con gli altri capi achei, Achille costrinse allora Agamennone a liberare Criseide, ma il re, in cambio, impose ad Achille la consegna di Briseide, la sua schiava prediletta. Sdegnato, Achille decise di non mettere più piede in battaglia fino a che non gli fosse stata resa giustizia. Una decisione che, unita agli intrighi della madre Tetide (che, per dispetto contro Agamennone, aveva convinto Zeus a sostenere i Troiani), portò i Greci a un passo dalla rovina. Invano Agamennone tentò di negoziare il rientro di Achille in battaglia; l’eroe respinse ogni offerta e, insieme all’amico Patroclo, osservò da lontano l’avanzata dei Troiani verso il campo acheo. Accadde tuttavia che Patroclo, stufo dell’inattività, si fece prestare la corazza di Achille e si recò in battaglia. Dopo una serie di duelli vittoriosi, cadde per mano di Ettore, principe di Troia.
La sua morte provocò in Achille una tale ira da spingerlo a riappacificarsi con Agamennone e a riprendere le armi. I Troiani furono ricacciati indietro ed Ettore, il loro capo, fu ucciso da Achille che poi, per sfregio, ne legò il cadavere alla biga e lo trascinò per dodici giorni attorno alle mura di Troia. Solo quando seppe che gli dèi erano irritati con lui per la sua mancanza di pierà, Achille pose termine alla vendetta e restituì il corpo di Ettore al padre Priamo, anziano re di Troia. In seguito (ma qui siamo già nella tradizione postomerica) riprese a combattere, distinguendosi per il suo valore fino alla morte. Achille morì a causa di una freccia che lo colpì nel suo unico punto vulnerabile: il tallone.


LUSSURIOSO E INNAMORATO

Le elaborazioni poetiche sulla figura di Achille iniziano già nel medioevo con Dante Alighieri, che colloca l’eroe nel girone dei lussuriosi (per il suo amore folle per Polissena, figlia di Priamo), e con Francesco Petrarca che lo inserisce nei suoi Trionfi. Pietro Metastasio, nel XVIII secolo, gli dedica un poemetto, Achille a Sciro, e così pure Goethe, che però lascia incompiuta la sua Achilleide.
Abbondante anche la produzione pittorica sull’eroe, a cui tra l’altro hanno dedicato loro tele Annibale Carracci, Giovan Battista Tiepolo, Eugène Delacroix e Jean-Auguste Ingres.
La musica ha omaggiato Achille attraverso opere di Giovan Battista Lulli, Domenico Cimarosa e Luigi Cherubini. In tempi più vicini a noi, da segnalare la raccolta poetica di W. H. Auden intitolata Scudo di Achille e un libro di racconti di Alberto Savinio dedicato al tema di Achille innamorato.

lunedì 19 settembre 2011

APOLLO

Nessun altro dio greco, neppure Zeus, era venerato e temuto quanto Apollo. Protettore della poesia e della musica, della medicina e della pastorizia, poteva mostrarsi generoso verso gli uomini, aiutandoli nelle difficoltà e guarendoli nelle malattie. Ma talvolta si comportava in modo violento, punendo quanti lo contrariavano con castighi atroci. Apollo era anche un dio profetico: i suoi vaticini, raccolti nel tempio di Delfi, svelavano agli uomini il futuro.
Bellissimo, solare, affascinante, capace di muovere alla commozione con il canto e intimorire con le sue profezie; eppure spesso infelice in amore e, talora, spietato in maniera inspiegabile. Questo era Apollo, il più ambiguo e inafferabile tra gli dèi greci, l'unico adorato con uguale trasporto dagli artisti e dai guerrieri.

GENEALOGIA DI APOLLO

Frutto degli amori adulterini di ZEUS  con la Titanessa LATONA, Apollo apparteneva alla seconda generazione degli dèi olimpici. Come sua sorella gemella ARTEMIDE, era stato generato su un'isola appena sorta dalle acque e protetta da una volta liquida: un lembo di terra che gli antichi chiamavano Ortigia, identificandolo con l'isola di Delo. Latona si era rifugiata in quel luogo per sottrarsi alla persecuzione di Era, la moglie di Zeus, infuriata con lei perchè le aveva sedotto il marito. Ansiosa di vendetta, la regina dell'Olimpo aveva messo alle costole della rivale un mostruoso serpente, Pitone, con il compito di divorarle i figli non appena nati. In più, le aveva lanciato contro una maledizione che avrebbe impedito a Latona di partorire su qualunque terra, isola o continente che fosse stato lambito dai raggi solari. Proprio per sottrarsi a questo anatema, e per sfuggire al famelico Pitone, Latona cercò riparo sull'isola di Delo, dove generò i suoi due figli dopo nove giorni di dolorosissime doglie (Era infatti, per ritardare il parto, aveva "sequestrato" Ilizia, la dea delle gestazioni felici). Dopo la sua nascita, Apollo non restò a lungo a Delo; poco più che bambino, partì infatti per Delfi, dove vendicò la madre uccidendo con le sue frecce il mostruoso Pitone.

PROFETICO E PIETOSO

Apollo è considerato da molti studiosi l'espressione più perfetta del divino che la cultura ellenica abbia concepito, la figura che forse più si avvicina agli dèi monocratici di altre religioni. In lui, infatti, si ritrovano poteri e attributi assai diversi tra loro, apparentemente contraddittori ma in realtà collegati da sottili legami. Apollo è dunque prima di tutto un dio pietoso, che offre aiuto agli uomini e li protegge dai mali morali e fisici (non a caso, in quanto padre di Asclepio, è collegato alla scienza medica). Ma è anche un dio implacabile, che colpisce con ferocia i suoi nemici e punisce quanti mancano di rispetto alla legge divina. E' naturalmente un dio profetico, capace di penetrare con il suo sguardo il futuro e di comunicarne i segreti agli uomini. Ed è il dio che protegge la fondazione delle città e si fa tutore delle loro istituzioni civili. Ad Apollo sono attribuiti inoltre il patrocinio sulla musica e sulle arti in genere, e la tutela della pastorizia, retaggio del periodo che il dio trascorse presso il re di Fere, Admeto, accudendone amorevolmente le mandrie di pecore e buoi. Infine, soprattutto a partire dal periodo ellenistico, Apollo venne spesso identificato con il dio del Sole, Elio, una confusione di ruoli forse favorita dalla parentela del dio con Artemide, che a sua volta era ritenuta un'incarnazione della Luna.

ALLA GUIDA DEL CARRO DEL SOLE

In quanto dio del Sole, nella tarda antichità Apollo viene spesso rappresentato alla guida del cocchio solare, sul quale percorre i cieli portando agli uomini la luce. La stessa raffigurazione è frequente anche in epoca romana, dove Apollo assunse pure il titolo di Sol Invictus, un culto orientale che celebrava il trionfo della luce sulle tenebre.



LA MANDRIA E LA CETRA

Tra i molti attributi di Apollo, il più frequente era la cetra, che simbolizzava l'amore del dio per la musica e il suo ruolo di guida delle Muse. Sulla cetra di Apollo esistevano anche varie leggende: si narrava tra l'altro che l'avesse creata il dio Ermes, e che questi, per cederla, avesse preteso dal rivale il possesso della splendida mandria che aveva appena cercato di rubargli.

LE FRECCE INFALLIBILI

Apollo era anche un arciere infallibile e le sue frecce, come quelle di Artemide, potevano diffondere epidemie o provocare morti repentine. Durante la guerra di Troia, i dardi di Apollo, schierato con i Troiani, diffusero tra i Greci una pestilenza che decimò le truppe di Agamennone.

L'ORACOLO CONTESO


La voce profetica di Apollo parlava agli uomini attraverso vari oracoli sparsi in tutta la Grecia. In nessun altro luogo, tuttavia, essa risuonava così nitida come a Delfi, la città della Focide dove il dio aveva ucciso il serpente Pitone. Qui, già prima dell’avvento di Apollo, esisteva un antichissimo oracolo (detto di Temi) che lo stesso Pitone aveva il compito di sorvegliare. Con la morte dell’orrendo rettile, Apollo si impadronì dell’oracolo e ne fece il luogo privilegiato del suo culto. A Delfi, il dio fondò un grande tempio in cui una sacerdotessa, detta Pizia, svelava agli uomini le profezie di Apollo seduta su un treppiede sacro. E sempre nella città della Focide il figlio di Latona indisse solenni giochi funebri, chiamati Pitici, che rievocavano ogni quattro anni il suo trionfo su Pitone. Delfi divenne il più affollato luogo di culto dell’antichità, tanto da essere ribattezzato “ombelico del mondo”. E sul suo oracolo sorsero varie leggende: una di esse sosteneva per esempio che Eracle avesse tentato un giorno di acquisire il controllo del tempio, rubando il treppiede sacro alla Pizia. Ma Apollo l’aveva bloccato, e tra i due era scoppiata una rissa che solo l’intervento di Zeus, padre di entrambi, aveva sedato.


LA SIFDA DI MARSIA


Su apollo esistono varie leggende. Molte hanno carattere cruento, come quella che racconta il duello musicale tra il dio e Marsia. Quest’ultimo era un satiro che, con il suo flauto, aveva dichiarato di poter produrre melodie più soavi che non Apollo con la sua cetra. I due si sfidarono a colpi di note e il dio, uscito vincitore dalla contesa, punì il rivale scorticandolo vivo.
Non meno spietato si dimostrò Apollo nei confronti dei Ciclopi, colpevoli di aver forgiato il fulmine con cui Zeus aveva folgorato Asclepio, figlio di Apollo e della bella Coronide. Non potendo rivalersi sul re dell’Olimpo, Apollo si vendicò di quella tragica morte uccidendo i suoi giganteschi alleati, massacrati a colpi di frecce.
Di tutt’altro tenore la leggenda che racconta i nove anni di servitù trascorsi dal dio presso il re di Fere, Admeto, in Tessaglia. Apollo vi si era recato di malavoglia, obbligato da Zeus che intendeva così punirlo per l’uccisione dei Ciclopi. Ma in tessaglia il dio scoprì la sua passione per la pastorizia, rivelandosi a tal punto abile nell’accudire il bestiame da guadagnarsi l’amicizia di tutti i pastori della regione.
Un numero significativo di leggende riguarda infine le avventure erotiche di Apollo, un dio, peraltro, spesso sfortunato in amore. Celebre, per esempio, è la storia della sua infelice passione per Dafne, la bellissima ninfa che, pur di sottrarsi ai desideri del dio, chiese al padre Peleo di trasformarla in una pianta di alloro. Anche Cassandra, figlia del re troiano Priamo, deluse le aspettative di Apollo: dopo avergli giurato eterno amore purchè le insegnasse l’arte divinatoria, si tirò infatti indietro, facendo infuriare il dio che, per punirla, fece sì che nessuno credesse alle sue profezie. Così Cassandra poteva vedere nel futuro, ma non ispirare fiducia in ciò che raccontava.
Un capitolo a parte meritano infine gli amori omosessuali di Apollo, tra cui quello, struggente, per Giaginto. I due erano uniti da una grande passione, ma un giorno in cui si allenavano al lancio del disco, un violento colpo di vento deviò l’attrezzo di Apollo, che centrò alla tempia Giacinto uccidendolo. Affranto dal dolore, il dio decise allora di rendere immortale il nome dell’amante: fece perciò nascere dal suo sangue uno splendido fiore rosso a cui diede proprio il nome di giacinto.



IL SIGNORE DELLA LUCE


In epoca medievale Apollo godette di buona fama, e le raffigurazioni allegoriche tesero a interpretarlo un alter ego del Cristo, a cui veniva equiparato per il tronfo sul Pitone/Demonio. In seguito venne spesso raffigurato come signore delle muse (celebri gli affreschi di Raffaello Sanzio nelle stanze vaticane) e come auriga del carro solare. In quest’ultima veste compare ripetutamente nelle decorazioni della reggia di Versailles, dove il suo status di dio del sole diventa un emblema del potere universale di Luigi XIV.
La letteratura moderna ha celebrato Apollo attraverso le poesie di John Keats, Percy Bisshe Shelley e Rainer Maria Rilke.
Nel suo saggio La nascita della tragedia, il filosofo Friedrich Nietzsche mette in luce il contrasto tra l’arte “apollinea”, razionale e solare, e quella dionisiaca, improntata invece agli aspetti più oscuri della natura umana.

lunedì 15 agosto 2011

ICARO


E' la storia di un'iniziazione mancata, il racconto di un figlio che si ribella al padre e, per foga giovanile, finisce per perdere la vita. Così, in termini moderni, potrebbe essere riassunto il mito di Icaro, uno dei più celebri della cultura classica. Una storia resa immortale dai versi latini di Ovidio e Virgilio, e nella quale si esprimono due sogni ricorrenti negli uomini di ogni epoca: quello di volare e quello di spingersi oltre i limiti imposti dalla natura umana.
Di lui il mito non ci svela quasi nulla: nè l'età (sappiamo solo che era giovanissimo), nè l'aspetto, e neppure che cosa facesse prima di essere rinchiuso con il padre Dedalo nel labirinto. Per noi, dunque, la storia di Icaro coincide con il suo "folle" volo: un'avventura di orgoglio e caduta in cui ogni uomo può, a suo modo, riconoscersi.

GENEALOGIA DI ICARO

Figlio di DEDALO e della schiava cretese NAUCRATE, ICARO discendeva per via paterna dal fondatore di Atene, il mitico re serpente CECROPE. Costui aveva avuto dalla moglie AGLAURO quattro figli: tre maschi e una femmina, anch'essa chiamata Aglauro. Di lei si invaghì ARES, dio della guerra, che la amò e le diede una figlia, ALCIPPE, poi divenuta moglie di EUPALAMO. E fu dall'unione tra questi due sposi che nacque Dedalo, da cui Icaro ereditò dunque sia sangue divino (lascito di Ares) sia sangue regale (dovuto alla discendenza di Cecrope).
Ateniese per stirpe, Icaro trascorse però l'intera esistenza a Creta. Questo perchè suo padre, Dedalo, che ad Atene si era affermato come geniale inventore e architetto, fu cacciato dalla città natale dopo essersi macchiato di un orribile delitto: l'assassinio del nipote TALO, figlio della sorella Perdice, fatto precipitare a tradimento dall'Acropoli per timore che il suo talento potesse oscurare la fama dello zio. A seguito di quel delitto, Dedalo fu esiliato da Atene e costretto a rifugiarsi a Creta, presso la corte di Minosse, dove in breve conquistò i favori del sovrano e la fiducia della regina Pasifae.

LE ALI DI CERA

Quando nacqua Icaro, Dedalo era già un uomo temuto e potente: il re di Creta, Minosse, lo aveva infatti eletto suo architetto di fiducia, e gli aveva affidato i lavori di costruzione del Labirinto, il palazzo-prigione in cui era stato rinchiuso il mostruoso Minotauro, frutto dei rapporti bestiali della regina Pasifae con il Toro di Creta. Accadde però che a Creta giungesse Teseo, il principe di Atene, e che Dedalo si lasciasse convincere da Arianna, figlia di Minosse, ad aiutare l'eroe a violare il labirinto e uccidere il Minotauro. Non appena seppe del tradimento patito, Minosse si infuriò con Dedalo, che fece arrestare e rinchiudere nel Labirinto con il figlio Icaro. Pensava in tal modo di averlo tolto di mezzo, ma Dedalo, con un colpo di genio, fabbricò per sè e per Icaro due paia di ali - costruite con piume di uccelli raccolte nel Labirinto - e se ne servì per volare insieme al figlio fuori dal Labirinto.
Prima di partire, Dedalo aveva raccomandato a Icaro di non volare troppo in basso, dove l'umidità poteva appesantire le ali, nè di salire oltre misura. Ma Icaro, inebriato dal volo, non obbedì al padre, e si spinse troppo vicino al Sole: il calore dei raggi sciolse così la cera che teneva incollate le piume, le ali si sfasciarono e Icaro precipitò nel mare sottostante, che da allora fu chiamato Icario.
Accanto a questa versione del mito, ne esistevano poi altre che miravano a eliminare la dimensione del volo, percepita dagli antichi come inverosimile. Si raccontava per esempio che Dedalo e Icaro, liberati dal Labirinto grazie all'intervento di Pasifae, fuggissero da Creta su due barche a vela (Dedalo, infatti, era ritenuto anche l'inventore delle vele). Icaro però non riuscì a governare la sua imbarcazione e si capovolse, morendo annegato. In sua memoria il padre, una volta giunto in Italia, fece erigere a Cuma un tempio consacrato ad Apollo, sul cui tetto d'oro istoriò in bassorilievo le gesta del figlio.


DEDALO, IL GENIO

Da Cuma, Dedalo si traaferì in Sicilia, dove conquistò l'affetto del re Cocalo fabbricando per le sue figlie delle speciali bambole snodate. Nel frattempo, però, Minosse aveva iniziato a dargli la caccia, ed era sbarcato in Sicilia con la sua flotta. Non sapendo dove si nascondesse il fuggitivo, il re di Creta escogitò uno stratagemma : ovunque giungesse, prometteva una ricompensa a chi fosse riuscito a far correre dentro i meandri di una conchiglia un filo di lino. Sapeva infatti che solo un genio come Dedalo sarebbe riuscito a venire a capo della prova. E infatti il grande architetto, ignaro del pericolo che correva, non si smentì: forò a un'estremità la conchiglia, fece colare del miele lungo le sue venature e poi legò il filo di lino a una formica che, attratta dal miele, percorse da cima a fondo l'intricato tracciato. A quel punto Minosse ordinò a Cocalo la consegna di Dedalo; ma questi, con l'aiuto delle figlie del re, praticò un foro nella stanza da bagno di Minosse e lo sommerse con un getto di pece bollente.
Dopo l'uccisione di Minosse, dalla Sicilia Dedalo si trasferì in Sardegna, dove lasciò varie tracce del suo genio architettonico. In seguito di lui si persero del tutto le tracce, ma il suo nome continuò a essere ricordato nel mondo antico come emblema del genio universale, di volta in volta scultore, architetto o inventore di prodigiosi marchingegni.

L'IDEA DEL LABIRINTO

A detta di alcuni studiosi, il mito del Labirinto, la più celebre opera architettonica di Dedalo, sarebbe stato ispirato dalla planimetria molto complessa dei palazzi cretesi, ricchi di corridoi, stanze e gallerie.

LA SCULTURA DEDALICA

Gli antichi attribuivano a Dedalo il merito di avere sviluppato l'arte della scultura, che da canoni semiartigianali passo, grazie a lui, a forme più monumentali e accurate. Ancora oggi, del resto, si definisce "dedalica" tutta la scultura arcaica greca, databile attorno al VII secolo a.C. e caratterizzata da statue rigidamente frontali.

L'INVENZIONE DEI NURAGHI

Secondo lo storico greco Diodoro Siculo (I sec. a.C.), durante la sua permanenza in Sardegna, Dedalo creò i nuraghi, massicce torri coniche composte da massi di pietra sovrapposti a secco.


IL GUARDIANO DI BRONZO

Alla figura di Dedalo si lega anche il mito di Talos, il gigantesco automa di bronzo che, ai tempi di Minosse, faceva la guardia all'isola di Creta. Benchè infatti le fonti antiche ne attribuissero la creazione al dio del fuoco Efesto, c'era chi sosteneva che a forgiarlo fosse stato invece Dedalo, maestro nell'arte di lavorare i metalli. Instancabile e obbediente, Talos si gettava nel fuoco, surriscaldava il bronzo di cui era fatto e si precipitava contro gli "invasori", bruciandoli vivi.
Talos era invulnerabile in tutto il corpo, fuorchè all'altezza della caviglia, dove aveva una piccola vena chiusa da un perno. E fu proprio addormentando con un incantesimo l'automa, e poi togliendo quel "tappo" che tratteneva i suoi fluidi vitali, che la maga Medea riuscì a uccidere Talos, consentendo agli Argonauti di sbarcare a Creta.

UN ANGELO TRA LE STELLE

Il mito di Icaro, sopravvissuto nei secoli grazie a Le Metamorfosi di Ovidio, fu ripreso nel medioevo da Dante, Boccaccio e Chaucer. La cultura rinascimentale ribaltò il giudizio negativo sul "folle" volo - ritenuto fino ad allora un esempio di hybris, cioè di arrogante rifiuto dei propri limiti - espimendo nei versi di Jacopo Sannazzaro la propria ammirazione per l'audacia di Icaro.
Meno enfatica l'interpretazione del mito offerta dal pittore Pieter Brueghel il Vecchio, che ambienta la morte di Icaro in un contesto contadino, dove nessuno pare interessato alla tragedia in atto.
In secoli più vicini a noi, hanno riletto il mito ovidiano William H. Auden, Gabriele D'Annunzio e James Joyce, nonchè i pittori Marc Chagall ed Henry Matisse, quest'ultimo autore di un dipinto in cui Icaro appare come una sorta di angelo galleggiante tra le stelle.

martedì 26 luglio 2011

TESEO


E' uno dei grandi eroi del mondo classico, il "rivale" ateniese di Eracle, il cui mito era nato invece nell'area del Peloponneso. Protagonista di un'infinità di battaglie, avventure e imprese (tra cui la celebre uccisione del Minotauro), fu onorato dai suoi concittadini anche come padre della patria, fondatore della potenza ateniese e riformatore delle istituzioni pubbliche cittadine.
Teseo era considerato dai greci il padre di Atene, una città che non aveva fondato ma che, secondo la tradizione, aveva rinnovato e reso grande. Alle sue imprese si facevano risalire l'espansione territoriale di Atene e il suo dominio sull'Attica. Dall'azione politica di Teseo si pensava discendessero invece le istituzioni della democrazia greca.

GENEALOGIA DI TESEO

Esistono due diverse tradizioni sulla nascita di Teseo. La più accreditata fa dell'eroe attico il figlio di EGEO, antico re di Atene, e di ETRA, principessa di Trezene e discendente, attraverso il nonno PELOPE, dal grande ZEUS. Secondo questa tradizione, il concepimento di Teseo sarebbe stato il frutto di un inganno: Egeo, infatti, non riuscendo ad avere figli, si era rivolto all'oracolo di Delfi, che, però, gli aveva risposto in modo oscuro. Il re ateniese, in cerca di conforto, si recò dall'amico PITTEO, re di Trezene, il quale approfittò dello scoramento del sovrano per farlo ubriacare. Poi ordinò alla figlia Etra di trascorrere una notte con lui. Dalla loro unione nacque un figlio, che venne chiamato Teseo. Un'altra versione dei fatti sostiene però che Etra, ispirata da un sogno inviatole da Atena, la notte stessa in cui si congiunse con Egeo andò a offrire sacrifici sull'isola di Sferia, al largo di Trezene. Lì fu sorpresa da POSEIDONE, dio del mare, che la prese con la forza e la ingravidò. L'eroe attico, secondo questa variante del mito, avrebbe dunque due padri: uno umano, Egeo (da cui la sua natura mortale), e l'altro divino, Poseidone, che gli avrebbe trasmesso una forza e un coraggio eccezionali.

LONTANO DAL PADRE

Malgrado attendesse da tempo la nascita di un erede, Egeo non portò con sè ad Atene Teseo. Temeva infatti che i suoi 50 nipoti, detti Pallantidi, sentendosi esclusi dalla successione attentassero al suo trono e cercassero di uccidere il neonato. Teseo crebbe perciò a Trezene, sotto la tutela del nonno Pitteo, affidato alle cure della madre Etra e dei migliori precettori. A sette anni, in occasione di una visita di Eracle alla città, diede per la prima volta prova del suo valore: un giorno in cui il celebre ospite era a colloquio con il nonno, e aveva abbandonato in una sala la pelle di leone che usava come manto, Teseo, scambiandola per un leone vero, le si avventò contro come una furia, colpendola ripetutamente con una spada. In seguito Teseo, ormai adolescente, si recò a Delfi consacrandosi al dio Apollo. Al suo ritorno a Trezene, la madre gli svelò la verità sulle sue origini. Etra lo condusse in un luogo segreto, dove Egeo, prima di partire, aveva nascosto dietro un masso una spada e un paio di sandali. E gli raccontò di come lo stesso Egeo le avesse raccomandato di non svelare quel nascondiglio al figlio se non quando questi fosse stato abbastanza forte  per spostare da solo il masso. Ora quel momento era giunto, disse Etra a Teseo. E lo invitò a recuperare la spada e i sandali lasciati per lui dal padre.

LA SPADA SOTTO LA ROCCIA

Non senza fatica, Teseo scostò il masso indicatogli dalla madre e si appropriò della spada e dei sandali che il padre gli aveva lasciato. Poi partì per Atene, incurante degli inviti di Etra a essere prudente. Ansioso di emulare le gesta di Eracle, egli non prese neppure in considerazione l'ipotesi di raggiungere Atene via mare. Preferì invece muoversi a piedi, incamminandosi lungo un sentiero infestato da briganti.


IL LETTO DI PROCUSTE

Nel corso del suo viaggio verso Atene, Teseo affrontò e soppresse diversi briganti. Uno su tutti, Procuste (o Damaste), il crudele gigante che legava i passanti a un letto e poi li "adattava" alla sua misura tagliandoli o stirandoli secondo necessità. Teseo sconfisse Procuste in un furibondo duello, poi, con spietato contrappasso, lo uccise segandogli le gambe.

L'ARRIVO AD ATENE

Dopo aver ripulito l'Attica dai suoi briganti, Teseo giunse in incognito ad Atene, con l'intenzione di incontrare al più presto il padre Egeo. Ma questi, all'epoca, era in balia della sua amante, la maga Medea, che intuì l'identità del giovane e fece il possibile per eliminarlo. Per prima cosa gli ordinò di catturare il toro di Maratona, un mostruoso bovino che Teseo soggiogò a mani nude e trascinò poi con una corda fino ad Atene. Medea allora rivide i suoi piani, e convinse Egeo a offrire un grande pranzo in onore di Teseo. Poi, con il consenso del re (che temeva quel giovane così valoroso), porse all'eroe una coppa di vino avvelenata. Prima di berlo, però, Teseo estrasse come per caso la spada di Egeo e questi, riconoscendola, si gettò al collo del figlio, scagliando lontano la coppa avvelenata. Teseo ottenne così gli onori meritati, mentre Medea, smascherata, dovette andare in esilio.

SUL TRONO DI ATENE

Poco dopo essersi reincontrato con il padre, Teseo compì la sua impresa più celebre: si recò a Creta e uccise il Minotauro, il mostruoso uomo-toro a cui, ogni anno, Atene doveva versare un odioso tributo di sangue. Poi rientrò in patria, ma, al suo arrivo in porto, si scordò di sostituire le vele nere con quelle bianche, segno di vittoria. Egeo pensò così che il figlio fosse morto e si gettò dalle mura cittadine. Il suo suicidio spinse Teseo sul trono, inaugurando un'epoca di sostanziali cambiamenti. In primo luogo Teseo realizzò il "sinecismo", ovvero unificò le diverse borgate dell'Attica nello stato di Atene. Istituì inoltre le Feste Panatenee, simbolo della raggiunta unità politica, e divise la società  in tre classi: nobili, artigiani e coltivatori. Infine pose le basi delle future istituzioni democratiche di Atene. L'intensa attività di governo non distolse comunque Teseo da guerre e avventure: dopo aver assoggettato la città di Megara, egli affrontò e vinse le Amazzoni, infuriate perchè l'eroe aveva rapito e sposato una di loro, Antiope. Con l'amico Piritoo, partecipò inoltre alla guerra tra Lapiti e Centauri, scatenata dal tentativo di stupro di Ippodamia da parte di un Centauro, e si spinse fino negli Inferi, dove fu liberato da Eracle dopo una lunga prigionia. Al suo rientro in Atene, trovò una situazione profondamente mutata: le fazioni politiche si contendevano il potere e lui stesso era stato di fatto esautorato. Disperando di poter riaffermare la sua autorità, si recò in esilio sull'isola di Sciro, dove il re Licomede dapprima gli si finse amico, ma poi lo uccise facendolo precipitare da una rupe. Le sue spoglie rimasero a lungo insepolte, finchè non vennero riportate ad Atene e inumate in un tempio ai piedi dell'Acropoli. Iniziò allora il culto degli Ateniesi per Teseo, venerato come protettore della città: si raccontava addirittura che, durante la battaglia di Maratona, egli fosse apparso ai soldati ateniesi, trascinandoli con i suoi incitamenti alla vittoria sui Persiani. 



ALL'OMBRA DEL MINOTAURO

Meno atletico di Eracle, meno cerebrale di Edipo, meno inquieto di Ulisse, Teseo finì presto in una sorta di cono d'ombra, schiacciato dalla fama della sua vittima più celebre, il Minotauro. Di lui tuttavia si ricordarono nel medioevo grandi poeti come Giovanni Boccaccio e Geoffrey Chaucer - che lo fece protagonista di uno dei Racconti di Canterbury - e, nel XVII secolo, un drammaturgo amante dei classici  come Jean Racine. In campo figurativo, Teseo è stato immortalato da pittori come Vittore Carpaccio, Nicolas Poussin, Pieter Paul Rubens, oltre che, di recente, da Pablo Picasso. Notevoli le riletture del suo mito effettuate nel XX secolo da Andrè Gide e Cesare Pavese, a cui va aggiunto, in campo cinematografico, un film d'avventure di Silvio Amadio, Teseo contro il Minotauro, girato nel 1960.