domenica 27 maggio 2012

NIKE



Nella mitologia greca e latina, la Vittoria era personificata da una dea alata che si diceva discendesse dalla stirpe violenta dei Titani, ma che, durante la guerra tra questi ultimi e gli Olimpi, si schierò a fianco di Zeus, propiziandone la vittoria. Una figura, quella di Nike, al tempo stesso simbolica e concreta, spesso assimilata a quella di Atena e venerata, sia pure in forme diverse, in tutto il mondo antico.
Di Nike esistono, nel mondo classico, decine di statue. Pochi, invece, i miti che la vedono protagonista, forse perché, incarnando un concetto astratto, poco si prestava a essere raccontata. Fa eccezione la “Titanomachia”, dove Nike viene condotta dalla madre alla corte di Zeus, che la pone alla guida del suo carro divino e la vuole accanto a sé nella lotta contro i Titani.

GENEALOGIA DI NIKE

Nell’albero genealogico di Nike si possono individuare legami con tutti i più grandi dèi della generazione precedente agli Olimpi. Suo padre, infatti, è Pallante, titano violento e dal tragico destino, che, attraverso i genitori Crio ed Euribia, si ricollegava a potenti dèi primordiali come Gaia, Urano e Ponto. La madre di Nike, Stige, personificazione del fiume infernale, era invece, secondo la Teogonia di Esiodo, una delle otto figlie di Oceano e Teti, oltre che una delle tantissime amanti dell’impetuoso Zeus, con il quale aveva generato la regina degli inferi Persefone (di qui il legame tra la Vittoria e la Morte). A Nike, infine, erano attribuiti tre fratelli, nati anch’essi dalla relazione tra Pallante e Stige. Si chiamavano Crato, Bia e Zelo e, nell’antico pantheon greco, impersonavano rispettivamente la Forza, la Violenza e l’Impegno congiunto all’Emulazione.


COMPAGNA DI ATENA

Venerata sia nel mondo greco che a Roma, Nike, nell’antichità, veniva associata ad Atena, della quale, secondo alcuni miti minori, da bambina era stata compagna di giochi. Frequente era la statua della dea della saggezza che, sul palmo della mano, reggeva la piccola Nike (a testimoniare il legame inscindibile tra vittoria e sapienza strategica). E altrettanto consueta, soprattutto ad Atene, era l’identificazione tra le due dee, ritenute entrambe protettrici della città e talora associate persino nel culto (sull’Acropoli esisteva un tempietto dedicato ad Atena Nike). In quanto divinità autonoma, la dea della vittoria venne invece valorizzata soprattutto in epoca imperiale, quando la sua figura alata, simbolo dei fasti militari di Roma, fu in qualche modo personalizzata e associata alla figura dei singoli condottieri. Si determinò così un netto stacco tra il mondo romano e quello greco, dove Nike era sempre stata ritenuta una divinità minore, legata agli eventi sportivi e, in particolare, alle Olimpiadi. Solo nella tarda classicità , Nike cominciò a essere associata alle vittorie militari, seppure in simbiosi con altre divinità (Atena, come si è detto, oppure Zeus). E bisognò attendere addirittura l’età alessandrina perché, in alcune località dell’Asia Minore, sotto l’influenza greca (per esempio Afrodisia), si assistesse all’emancipazione della figura di Nike, ora adorata come una divinità a sé stante protettrice dei combattenti. Resta il fatto che, a dispetto del suo ruolo minore, Nike fu una divinità enormemente popolare, come documentano il gran numero di opere d’arte greche che le rendono omaggio e il ricorrere della sua immagine sulle antiche monete elleniche.

L’ALTARE DELLA VITTORIA

A Roma, nell’antica sede del Senato (la cosiddetta Curia Iulia), era conservata una grande statua della Vittoria Alata, posta a sorveglianza dell’ara dinanzi alla quale, in età repubblicana, giuravano i nuovi senatori. La statua, ricoperta d’oro e con la testa cinta d’alloro, era stata trafugata dall’esercito romano durante la campagna militare contro Taranto e divenne presto l’emblema della crescente potenza dell’Urbe. L’effigie della dea restò nella Curia Iulia fino all’epoca dell’imperatore Teodosio I quando, a seguito delle feroci polemiche tra sostenitori  della religione pagana e cristiani (che vedevano nella dea alata un simbolo empio), la statua fu rimossa dal Senato e l’altare su cui vigilava venne distrutto.

CREATURE ALATE

Nike è la più raffigurata, ma non certo l’unica, tra le creature alate del mito greco. Oltre a lei, il dono del volo era attribuito anche a Ermes ed Eros, nonché a divinità come Ipnos e Thanatos, il Sonno e la Morte, fratelli di sangue che, come la Vittoria, rappresentavano  personificazioni di concetti astratti. Figli di Erebo e della Notte, quindi legati al regno delle tenebre, Ipnos e Thanatos ricordavano Nike per la giovane età e per la costante presenza sullo scenario umano. A differenza di quest’ultima, però, non erano oggetto di culto da parte dei Greci, che solo a Trezene officiavano riti in onore del Sonno. Di tutt’altro spessore la figura delle Erinni, o Furie, le dee greche della vendetta. Raffigurate come un incrocio tra Nike e la Medusa, con corpo femminile, grandi ali e capelli serpentiformi, si diceva fossero nate dall’impasto tra la terra e le gocce di sangue versate da Urano a seguito della sua evirazione. Il loro ruolo di vendicatrici implacabili le rendeva figure assai temute nel pantheon greco, tanto che si diceva che potessero perseguitare gli autori dei crimini non solo in vita ma anche dopo la morte. Al fianco di queste divinità dall’aspetto ancora parzialmente umano, la mitologia greca proponeva poi una serie di mostri alati dai poteri talora benefici, più spesso minacciosi. Appartenevano a questa categoria le Arpie, spaventose rapitrici di bambini che, nell’iconografia classica, erano raffigurate come uccelli con busto femminile e possenti artigli da rapace. Oppure le Gorgoni (tra cui la crudele Medusa), anch’esse dotate di ali d’oro che le rendevano ancora più temibili e implacabili negli assalti. Per non parlare della Sfinge o di un mostro benefico come Pegaso, il cavallo alato la cui capacità di volare permise a Perseo e Bellerofonte di portare a termine le loro incredibili imprese.

PROTETTRICE DEGLI EVENTI SPORTIVI

Emblema tra i più significativi della civiltà classica e della religione pagana, la figura alata di Nike fu avversata con forza dai primi cristiani, che tuttavia, come per altri simboli antichi, si sforzarono di riassorbirne l’iconografia nella propria tradizione artistica. Anche il potere politico non rinunciò all’ “appeal” di Nike, come testimonia il perdurare, fino alle soglie della modernità, di raffigurazioni della dea alata poste a suggello di trionfi pittorici dedicati ai vari imperatori. In epoche più recenti, Nike è parsa recuperare il suo ruolo originario di divinità protettrice degli eventi sportivi: così negli anni venti, l’orefice Abel Lafleur, dovendo la prima Coppa del Mondo di calcio (detta Coppa Jules Rimet), scelse di dare al piede di sostegno del trofeo l’aspetto della dea della vittoria. E, fin dai Giochi Olimpici del 1928, è invalsa l’abitudine di scolpire, sul diritto delle medaglie destinate ai vincitori, l’immagine di Nike sullo sfondo di un anfiteatro greco.

domenica 13 maggio 2012

CARONTE



Varcate le soglie dell’Aldilà, secondo la mitologia greca i defunti incontravano il terribile Caronte, un vecchio laido che, sulla sua zattera, traghettava le anime al di là dell’Acheronte, il fiume infernale. Un intermediario tra il mondo terreno e l’Oltretomba dai modi tirannici e dall’aspetto spaventoso, un demone infernale in cui si rispecchiava tutto l’orrore del mondo greco nei confronti della morte.
Figura minore della mitologia greca, Caronte è stato reso immortale da Virgilio e Dante, che nei loro poemi più celebri, l’Eneide e la Divina Commedia, ne hanno tracciato un ritratto indimenticabile: un immondo traghettatore di anime che vessa e atterrisce i defunti con le sue ingiurie, preparandoli alla triste vita nell’oltretomba.

GENEALOGIA DI CARONTE

L’albero genealogico di Caronte è scarno quanto sporadiche sono le notizie che lo riguardano. Di lui i mitografi antichi si limitano a dirci che era figlio di Erebo, il dio delle tenebre, generato all’origine dei tempi da Caos, vuoto abisso dal quale ogni cosa discende. Caos era anche il padre di Notte, sorella di Erebo, che secondo alcuni autori (soprattutto di epoca latina) sarebbe stata la madre di Caronte. Se questa ricostruzione fosse vera, allora Caronte avrebbe avuto anche diversi fratelli, tutti nati dalla relazione tra Notte ed Erebo: tra di essi Emera, incarnazione del Giorno, ed Etere, personificazione del Cielo superiore (dove la luce è più pura rispetto al Cielo vicino alla Terra). Nessun testo antico prospetta invece la possibilità  che Caronte possa essersi sposato o avere avuto figli, cosa del resto assai improbabile visto il suo triste mestiere di nocchiero infernale.

LA ZATTERA DEI MORTI

Nel loro viaggio verso l’Aldilà, i defunti erano accompagnati dal dio Ermes fino sulle rive dell’Acheronte, dove, a bordo della sua zattera formata da pezzi di corteccia d’albero cuciti insieme, li attendeva il feroce Caronte. Il nocchiero infernale era descritto dai Greci come un vecchio sudicio e dalla barba incolta, vestito con un mantello a brandelli e, talvolta, con un cappello rotondo. Egli accoglieva le anime dei defunti con modi bruschi, deridendole, insultandole e spesso malmenandole. Poi le caricava sulla sua zattera e le conduceva sull’altra sponda del fiume, dove si trovava l’ingresso dell’Oltretomba. Per il suo compito di nocchiero, Caronte pretendeva un tributo, una piccola moneta d’argento che, nell’antica Grecia, era consuetudine porre sotto la lingua dei cadaveri prima di seppellirli. Solo chi aveva ricevuto onori funebri, e quindi portava con sé l’obolo di Caronte, poteva imbarcarsi sulla sua barca: gli altri erano condannati a vagare in eterno e senza pace lungo le nebbiose rive dell’Acheronte. Oltre che come traghettatore d’anime, Caronte era conosciuto anche come sentinella degli Inferi, incaricato da Ade di impedire ad ogni costo ai viventi l’accesso al mondo ultraterreno. Non sempre, tuttavia, la sua vigilanza era così ferrea come ci si sarebbe potuti aspettare: per esempio, quando Eracle scese agli Inferi per catturare Cerbero, Caronte non riuscì a bloccarlo, e per questo fu punito da Ade con un anno di carcere. Anche il troiano Enea riuscì a eludere la guardia di Caronte, grazie all’aiuto della Sibilla Cumana (sacerdotessa di Apollo) che, mostrando al vecchio un ramoscello d’oro, riuscì a placarne la rabbia come per magia. Infine Caronte fu beffato anche da Orfeo, il musico tracio, che con la sua cetra lo incantò  al punto da convincerlo a fargli posto sulla sua zattera.


LE GUIDE INFERNALI

La figura dello psicopompo, ovvero di colui che, come Caronte, accompagna le anime dei defunti verso l’Aldilà, non è una prerogativa della cultura greca. La si ritrova praticamente in tutte le religioni antiche, anche se quasi in quella ellenica il ruolo è sdoppiato tra due diversi personaggi: da un lato, appunto, Caronte, che agisce in una sorta di terra di mezzo, già immersa nelle tenebre infernali ma ancora periferica rispetto all’Oltretomba vero e proprio; dall’altro il dio Ermes, che fa la spola tra la Terra e gli Inferi per recuperare le anime dei morti e condurle, attraverso uno dei numerosi accessi all’Averno, fino all’imbarco di Caronte. Presso gli Aztechi, il lavoro di psicopompo si concentrava invece nelle mani del solo Xolotr, dio dall’aspetto di scheletro che, oltre a dominare la potenza dei lampi, guidava anche i morti nel loro ultimo viaggio. Gli Egiziani avevano Anubi, dio dal corpo umano e con la testa di sciacallo, e i Persiani Mitra, divinità dalle molteplici prerogative tra cui, appunto, quella di psicopompo. Se presso gli Etruschi l’accompagnatore dei defunti aveva il volto di Charun, un demone con naso d’avvoltoio e orecchie appuntite, nel mondo celtico la medesima funzione era svolta da Ankou, scheletrico cocchiere con una falce in mano. Nella cultura orientale, infine, la figura dello psicopompo variava a seconda dei luoghi: in Giappone, per esempio, a condurre i morti nell’Aldilà erano gli shinigami, “mietitori di anime” cui toccava anche il compito di impedire la fuga degli spiriti più recalcitranti; in India, invece, lo psicopompo era Pusham, temuta divinità solare che, in quanto protettrice dei viandanti, vigilava anche sull’ultimo tragitto dell’uomo.

IL ROTOLO DEL DESTINO

L’orribile Charun, equivalente etrusco della figura di Caronte, conduceva i defunti nell’Oltretomba a piedi, a cavallo o su carro. Con lui viaggiava spesso Vanth, dea alata degli Inferi, che nella mano teneva stretto il rotolo del destino.

L’ARMATA DEI MORTI

Nella mitologia nordica, il ruolo di psicopompo è affidato a Odino, dio guerriero che raduna presso di sé gli eroi caduti in battaglia e poi sceglie i migliori per arruolarli nel suo grande esercito.

LA LUNA SULLA MANO

Protettore degli imbalsamatori e delle necropoli, il dio Anubi aveva il compito di accompagnare l’anima dei defunti di fronte al tribunale supremo degli dèi, illuminando il loro cammino nell’Oltretomba con la luna che teneva sempre nel palmo della mano.


L’ARCANGELO MICHELE

L’idea dello psicopompo, di origine antichissima, è stata in qualche misura rielaborata dalla cultura cristiana attraverso la figura dell’arcangelo Michele, il comandante delle truppe celesti che sconfissero Lucifero. Venerato già in epoca longobarda come protettore dei defunti, l’arcangelo Michele cominciò poi a essere considerato il tutore del passaggio delle anime nell’Aldilà, oltre che il garante del rispetto del giudizio divino. Non a caso, nelle miniature e nei rilievi medievali, è spesso raffigurato con una bilancia in mano o mentre lotta contro il diavolo per il possesso delle anime: una chiara testimonianza del ruolo-chiave attribuito all’arcangelo nel compiersi della giustizia divina.

MEDIATORE TRA MONDI LONTANI

Se è stato Virgilio, nell’Eneide, a definire per primo i tratti somatici e psicologici di Caronte, non c’è dubbio che l’immagine postclassica del nocchiero infernale dipenda in larga misura dalla descrizione dantesca nel terzo canto dell’Inferno. Dopo Dante, si sono misurati con il mito di Caronte Erasmo da Rotterdam e Giovanni Pontano, autori di dialoghi che, sulla scia del greco Luciano di Samosata, mettono a confronto l’orrendo nocchiero con personaggi antichi e moderni. In tempi più recenti, hanno evocato la figura di Caronte poeti come Wolfgang Goethe, Salvatore Quasimodo e Silvia Plath, nonché lo psicanalista Karl Jung, che nel demone greco ha individuato una sorta di mediatore tra conscio e inconscio. In campo pittorico, Caronte, pur poco raffigurato, compare in dipinti tra gli altri di Luca Signorelli, Luca Giordano e Joachim Patener, mentre la musica ha omaggiato il feroce nocchiero con arie di George Friedrich Handel e Franz Schubert.

lunedì 7 maggio 2012

PAN (FAUNO)



Il suo nome, in greco, significa “tutto”, ed è forse per questa ragione che Pan, pur non facendo parte degli dèi dell’Olimpo, era spesso visto dai filosofi come una sorta di divinità universale, un demone primordiale che presiedeva a ogni manifestazione della natura. Nella coscienza collettiva greca, tuttavia, Pan era conosciuto come dio dei campi e delle greggi, un esuberante uomo-capro che vagava per i boschi suonando, danzando e tendendo agguati amorosi alle ninfe.
Divinità legata alla terra e alla fertilità dei campi, Pan appare, nei miti greci, come una figura ambivalente. Bonario e generoso verso i pastori, può però rivelarsi molto pericoloso, trasformandosi in un irrequieto demone delle foreste che terrorizza ninfe e viandanti suscitando in loro il cosiddetto “timor panico”.

GENEALOGIA DI PAN

Le origini del dio Pan sono tutt’altro che chiare. Sull’identità dei suoi genitori, infatti, esistono decine di ipotesi, spesso discordanti tra di loro. La più curiosa, elaborata dallo scrittore Luciano di Samosata, individua la madre del dio in Penelope, moglie di Ulisse: la regina di Itaca avrebbe tradito il marito durante la sua lunga assenza da Itaca, accoppiandosi con il dio Ermes in forma di capro e generando con lui il mostruoso Pan. Una variante dello stesso mito sostiene invece che Penelope si sia concessa a turno a tutti i Proci, e che da questa unione multipla sia nato il dio dei boschi. Secondo un’altra genealogia, Pan sarebbe invece frutto degli amori tra Ermes e la ninfa Driope, la quale, una volta partorito il dio, per disgusto del suo aspetto lo abbandonò in un bosco. Allora Ermes, premuroso, lo condusse con sé sull’Olimpo, dove Zeus e gli altri dèi lo presero subito a ben volere, ribattezzandolo Pan perché la sua nascita rallegrava i cuori di “tutti”. Altre filiazioni di Pan lo fanno discendere da Zeus e Ibris, personificazione dell’insolenza, oppure da Zeus e la ninfa Callisto. C’è chi identifica i genitori di Pan in Crono e Rea, padre e madre di Zeus, oppure in Urano e Gaia, divinità della prima generazione. Infine un mito romano attribuisce la paternità del dio a un pastore italico di nome Crati, che l’avrebbe generato fecondando una capra.

SOLITARIO E PIGRO

Originario dell’Arcadia, nel cuore del Peloponneso, Pan era adorato non solo in Grecia ma in tutto il Mediterraneo, come dimostra la sua identificazione a Roma con il latino Fauno. Dio dei boschi e del bestiame, dei pastori e dei cacciatori, era descritto dagli antichi come un ibrido tra uomo e capra, con il volto grinzoso e barbuto, due corna sulla testa, il petto villoso e le zampe da caprone. Agilissimo e molto veloce, trascorreva gran parte del suo tempo a zonzo per i boschi, portando le greggi al pascolo, allevando api e aiutando i cacciatori a snidare le prede. Era ritenuto anche l’inventore della siringa, il flauto a più canne dei pastori, con il quale guidava le danze delle ninfe e produceva melodie meravigliose. Solitario e pigro, amava riposarsi tra i cespugli o al riparo delle grotte, dove nelle ore più calde della giornata sonnecchiava a lungo. Era allora pericoloso svegliarlo, poiché reagiva lanciando urla acutissime, le stesse con le quali aveva messo in fuga il gigante Tifone mentre tentava di eliminare Zeus. La voracità sessuale di Pan era leggendaria: amava con uguale trasporto uomini, donne e ninfe, che coglieva di sorpresa nei boschi e possedeva con le buone o con le cattive. Aveva anche fama, quando la caccia amorosa non aveva dato frutti, di cercare da solo il proprio piacere. Le leggende che lo riguardano sono poche, e tutte di epoca tarda. La maggior parte si incentrano sui suoi amore con le ninfe (da una di esse, Eco, ebbe due figli, Iungo e Iambe) e sull’inganno perpetrato ai danni di Selene: la dea della Luna aveva più volte respinto i suoi approcci, ma Pan riuscì ugualmente a possederla presentandosi a lei coperto da un vello bianco, così da celare il proprio aspetto caprino.


L’AMORE PER SIRINGA

Una delle ninfe più amate da Pan fu la bella Siringa, che egli inseguì invano dal monte Liceo fino al fiume Ladone. Qui ella, pur di sfuggire agli assalti del dio, si trasformò in giunco, e poiché Pan non riusciva a distinguerlo dagli altri che crescevano in riva al fiume, tagliò alcuni fusti a caso e con essi fabbricò la siringa, uno zufolo a più canne che da allora volle sempre con sé.

SFRUTTATO E DISPREZZATO

Gli dèi dell’Olimpo, pur disprezzando Pan per la sua bruttezza e per i modi incivili, non esitarono ad approfittarne dei suoi doni. Così Apollo apprese da lui l’arte della profezia ed Ermes copiò lo zufolo che Pan aveva creato, spacciandolo poi per una sua invenzione.

DUELLO DI NOTE

Come il satiro Marsia, anche Pan osò sfidare Apollo, dio della lira, in una gara musicale. I due suonarono al cospetto di una giuria che, all’unanimità, assegnò la vittoria ad Apollo. Solo Mida, re di Frigia, contestò il verdetto, e per questo Apollo lo punì facendogli crescere due orecchie d’asino.

LA MORTE ANNUNCIATA

Secondo lo storico Plutarco, Pan fu l’unico dio dell’antica Grecia a morire. La notizia della sua scomparsa sarebbe stata data a un mercante di nome Tamo che, mentre navigava in direzione dell’Italia, sentì una voce divina ordinargli dal mare di annunciare a tutti la morte del grande Pan. Il mercante obbedì all’ordine, e per l’intera Grecia si diffusero dolore e incredulità.

CREATURE DEI BOSCHI

Simili a Pan per aspetto e abitudini, ma privi di una identità individuale, i Satiri erano i mitici componenti della corte di Dioniso, esseri semiselvaggi che scorrazzavano per i boschi insidiando ninfe e Menadi e intimorendo tutti coloro che incontravano. In genere raffigurati come esseri umani dagli attributi animaleschi (le orecchie appuntite da equino, le piccole corna, la coda da cavallo o da capro, il fallo eretto), impersonavano la fecondità e l’energia vitale della natura, celebrata dai riti dionisiaci. Amanti del vino e dei piaceri orgiastici, i Satiri non perdevano l’occasione di ubriacarsi e avevano, come Pan, una vera passione per la musica: sapevano suonare quasi tutti gli strumenti e amavano rallegrare Dioniso con i loro allegri concerti, accompagnati da sfrenate danze collettive. Difficilmente distinguibili dai Satiri, dei quali forse erano semplicemente più vecchi, i Sileni erano anch’essi creature del bosco, nati dagli amori di Ermes con le ninfe dei boschi o, forse, con le Naiadi. Associati da sempre al corteo di Dioniso, erano come i Satiri di natura divina ma non immortale, e si rendevano spesso protagonisti di risse e aggressioni nei confronti di ninfe e dee (tra cui Era e Iride). Uno di essi, Sileno, assunse nella mitologia greca un risalto particolare, tanto da venire indicato come l’educatore del piccolo Dioniso. La transizione dalla mitologia ellenistica a quella latina complicò ancor di più il quadro delle creature silvestri, in quanto a Satiri e Sileni si affiancarono (e in parte sovrapposero) anche i Fauni, senza una chiara distinzione tra le tre classi. Oltretutto Fauno era anche un antichissimo dio romano, successivamente identificato con il greco Pan, e talvolta fatto coincidere con Evandro, re di epoca preromana. Per non parlare di Silvano, il dio delle foreste, in cui confluivano parte dei poteri attribuiti dai Greci a Pan.


ALLA RICERCA DEL DIO DISPERSO

Dopo la fine di Roma, la figura del dio Pan andò sempre più confondendosi con quella di satiri e fauni. Tuttavia la sua individualità non fu del tutto cancellata, se pittori come Luca Signorelli, Nicolas Poussin e Jacob Jordaen vollero dedicargli propri dipinti. In campo letterario, Pan compare nel poema Arcadia di Jacopo Sannazaro e in molte liriche bucoliche dei membri dell’Accademia dell’Arcadia, un circolo di eruditi che scelse la siringa del dio come proprio emblema. Tra il XIX e il XX secolo, l’irlandese Joseph Stephens fece di Pan uno dei protagonisti del romanzo fiabesco La pentola dell’oro, mentre lo scrittore Arthur Machen (Il grande dio Pan) lo trasformò in una sorta di demone progenitore dell’intera umanità. Di Pan tratta, indirettamente, il film Percy Jackson e gli dèi dell’Olimpo, di Chris Columbus, dove il satiro Grover Underwood ambisce a ritrovare le tracce del disperso uomo-capro. Più centrale la figura di Pan nel pensiero di James Hillman, psicanalista di scuola junghiana che vede nel dio l’inventore della sessualità non procreativa.