domenica 30 dicembre 2012

AGAVE



Era l’unica tra le Baccanti a essere conosciuta per nome. Forse perché, anche per una mitologia dalle tinte forti come  quella greca, una madre che decapita e sbrana il proprio figlio restava un fatto eccezionale. Un evento fuori dalle regole come tutta la vita di Agave, figlia di Cadmo fondatore di Tebe, sorella di Semele amante di Zeus, devota di un dio, Dioniso, che alle proprie adepte chiedeva di abbandonarsi a lui in una sorta di mistico delirio.
L’intera vita di Agave può essere riassunta in un solo gesto: quello con cui, in preda a furore mistico, scambiò suo figlio Penteo per una belva feroce e lo divorò. Un contrappasso crudele per la donna che, proprio in nome di Penteo, era giunta a diffamare il ricordo della sorella Semele. Una punizione inflittale dal dio dell’ebbrezza Dioniso (figlio di Semele) per vendicare la madre e affermare la propria supremazia su qualunque vincolo di sangue.


GENEALOGIA DI AGAVE


Nella famiglia di Agave erano parecchi i personaggi mitologici di rilievo. A partire dal padre Cadmo, leggendario eroe le cui vicende si intrecciavano con quelle della fondazione di Tebe. La madre di Agave era invece Armonia, figlia di Ares e di Afrodite, soprannominata “l’unificatrice”, poiché tra i suoi attributi divini vi era quello di appianare i conflitti. Il matrimonio tra Cadmo e Armonia era ritenuto dagli antichi un modello di concordia, e aveva generato numerose figlie. Tra queste, oltre ad Agave, anche Autonoe e Semele: la prima era nota soprattutto in quanto madre di Atteone, leggendario cacciatore trasformato da Artemide in cervo. La seconda veniva ricordata per la sua relazione con Zeus, che l’aveva amata così tanto da accondiscendere alla più folle delle sue richieste: poterlo osservare, lei che era solo un’umana, in tutta la sua potenza divina. Invano Zeus mise in guardia la fanciulla dall’insensatezza di tale desiderio. Semele insistette e Zeus, che non voleva contrariarla, le apparve come dio dei fulmini carbonizzandola. Il padre degli dèi, tuttavia, riuscì a salvare dall’incendio il piccolo che la fanciulla portava in grembo, e che i fulmini paterni avevano reso immortale: era Dioniso, futuro dio dell’ebbrezza, che sarebbe asceso all’Olimpo dopo una dolorosa peregrinazione sulla Terra.


INVASATE DA DIONISO


Agave era la più celebre tra le Baccanti, le seguaci del culto di Dioniso (Bacco nel mondo latino), dio del vino, dell’estasi e della liberazione dei sensi. Note anche come Menadi (“le folli”) o Bistonidi (dal nome di una popolazione della Tracia molto devota al dio), le Baccanti erano in genere raffigurate nude, o coperte solo con pelli di daino che ne celavano a malapena la nudità.
Sul capo esibivano una corona d’edera, tra le mani stringevano il tirso, un bastone di legno anch’esso sormontato d’edera. Spesso portavano con sé strumenti musicali: il flauto a due canne, con cui scandivano le loro danze, e il tamburo.
Inseparabili dal dio Dioniso, di cui, insieme ai Satiri, costituivano al tempo stesso la compagnia e la scorta, giravano al suo seguito per le regioni della Grecia, dissetandosi alle fonti di montagna (da cui, nel loro mistico delirio, immaginavano di trarre miele e latte) e nutrendosi con ciò che capitava loro sotto mano.
Il loro legame con la natura era fortissimo: non solo perché, emblematicamente, ne rappresentavano il lato più selvaggio e incontrollabile, ma anche perché, su di essa, esercitavano un potere reale: non a caso, nell’antica Grecia era abituale vedere raffigurazioni di Baccanti che cavalcavano pantere oppure accarezzavano lupacchiotti e altre belve feroci.
La fama delle Menadi era naturalmente legata anche a quella dei Baccanali, le feste in onore di Dioniso che si tenevano nelle città dedite al suo culto. I Baccanali rappresentavano la prova più tangibile della capacità del dio di spezzare i tabù sociali e favorire il libero dispiegarsi degli istinti: durante queste feste, infatti, l’intero popolo (ma soprattutto le donne) veniva invaso da un autentico furore religioso, e percorreva le campagne scatenandosi nelle danze, lanciando grida sfrenate, abbandonandosi a ogni tipo di licenziosità.
Il culmine della cerimonia coincideva con il pasto rituale, durante il quale le sacerdotesse di Dioniso (le Menadi, appunto) nel tentativo di assimilare il dio, dilaniavano un animale e lo divoravano vivo.


STORIE DI SANGUE


Le leggende sulle Baccanti avevano quasi tutte un fondo tragico. Di Agave, per esempio, si raccontava che, dopo aver ucciso senza averne coscienza il figlio Penteo, in preda al dolore fosse fuggita in Illiria, presso il re Licoterse, che poi aveva sposato. Ma qualche anno più tardi avrebbe eliminato anche il marito, volendo assicurare al padre Cadmo il possesso del regno illirico.
Vittima della follia delle Baccanti fu anche Orfeo, il grande musico-poeta; poiché si era rifiutato di partecipare ai loro riti orgiastici, venne assalito e fatto a pezzi come Penteo. La sua testa fu gettata nel fiume Ebro, da dove ridiscese fino al mare giungendo infine all’isola di Lesbo. Qui gli abitanti le tributarono solenni onori, costruendole una tomba dalla quale la testa, eloquente anche dopo la morte, continuò a cantare e recitare versi per lungo tempo.
Se Orfeo fu vittima innocente delle Baccanti, non altrettanto si può dire di Licurgo, re di Tracia, colpevole di avere gravemente offeso Dioniso. Accadde quando il dio, in viaggio per la Tracia, non solo si vide rifiutare l’ospitalità da Licurgo (che mise pure in dubbio la sua divinità), ma patì l’oltraggio di vedere imprigionati i Satiri e le Menadi del suo corteo. La vendetta non si fece attendere: colto da un raptus di follia indotto dal dio, Licurgo uccise a colpi di ascia sua figlio Driante, scambiandolo per un ceppo di vite. Come se non bastasse, la Tracia venne colpita da una terribile siccità, e l’oracolo predisse che, solo squartando colui che aveva offeso Dioniso, i campi sarebbe tornati fertili. Così gli abitanti della regione catturarono Licurgo e lo legarono a quattro cavalli che, lanciati in direzioni opposte, dilaniarono il corpo del sovrano.
Una versione tardiva del mito raccontava invece che Licurgo, dopo avere offeso Dioniso, era stato aggredito da una Baccante di nome Ambrosia che, trasformatasi in un ceppo di vite, gli si era avvolta attorno fino quasi a soffocarlo.


UN MITO NATO CON EURIPIDE


La fama delle Baccanti è legata soprattutto all’omonima tragedia del greco Euripide, che nel 406 a.C. sviluppò per primo in forma teatrale il mito di Agave e della tragica uccisione del figlio Penteo. Da questa matrice ellenica discendono tutte le successive rielaborazioni letterarie sul tema, dal poema rinascimentale Orfeo, di Angelo Poliziano, fino al romanzo novecentesco Il principe Caspian, di C.S. Lewis (quarto episodio del ciclo Le cronache di Narnia), popolato di Satiri, Menadi e altre figure mitologiche. W.H. Auden, in collaborazione con Chester Kalmann, scrisse il libretto dell’opera più famosa  di Hans Werner Henze, Le Bassaridi, trasposizione musicale del testo di Euripide; mentre la pittura, con Poussin, Bouguereau e molti altri ha spesso visitato il tema delle Baccanti (e dei Baccanali), rimarcandone la carica di mistero e sensualità.

lunedì 17 dicembre 2012

IPPOLITA




È la più celebre  tra le regine delle Amazzoni, l’unica, insieme all’omerica Pentesileo, su cui il mito abbia costruito un piccolo nucleo di leggende. Temuta e ammirata al tempo stesso, Ippolita aveva ereditato dal padre Ares il coraggio e la ferocia in combattimento: ma nel suo animo di guerriera trovava spazio anche la generosità, come dimostrò accettando di donare la sua preziosa cintura a Eracle, l’eroe da cui, per un equivoco, sarebbe poi stata uccisa.
L’ammirazione e il timore con cui gli antichi greci guardavano a Ippolita si riflettono nella fama dei due personaggi considerati – a seconda dei miti – responsabili della sua morte: Eracle e Teseo, l’invincibile figlio di Zeus e l’uccisore del Minotauro. Una coppia di eroi simbolo della grecità, chiamati a riscattare, con la loro vittoria, lo scandalo vivente rappresentato dal mondo tutto al femminile delle amazzoni.


GENEALOGIA DI IPPOLITA


Come tutto ciò che riguarda le Amazzoni, anche l’albero genealogico di Ippolita è piuttosto confuso. L’unico dato certo riguarda l’identità del padre, il dio della guerra Ares, che secondo molte fonti avrebbe generato la giovane guerriera con la sua amante Otrera, prima regina delle Amazzoni. Ma le stesse fonti fanno talvolta discendere l’intera stirpe delle Amazzoni dall’unione tra lo stesso Ares e Armonia, la dea della Concordia, per cui risulta difficile capire in che rapporto fossero le due genealogie. Analoga difficoltà si ritrova al momento di definire il lotto delle sorelle di Ippolita, generalmente identificate con  Antiope, Pentesilea e Melanippe. Delle tre sorelle, tuttavia, le prime due appaiono talvolta come figure autonome, discendenti di Ippolita e sue eredi al trono. Mentre Melanippe è spesso presentata come la sorella di Antiope ma non di Ippolita e Pentesilea. Insomma, un mistero in piena regola, ulteriormente complicato dal fatto che le storie di Ippolita, Pentesilea e Antiope tendono spesso a sovrapporsi, facendo pensare a un unico personaggio chiamato con nomi diversi.


NEMICHE DEI MASCHI


Spesso presentate come le prime femministe della storia, le Amazzoni erano una stirpe di donne-guerriere che vivevano nelle inospitali regioni a nord della Grecia: sulle pendici del Caucaso secondo alcuni, in Tracia o nelle pianure della Scizia meridionale (l’odierna Bulgaria) secondo altri.
La loro era una società interamente al femminile: gli uomini non erano ammessi a farne parte, se non in veste di servi da adibire ai lavori più umili. La stessa attività riproduttiva avveniva solo in un periodo molto limitato dell’anno, quando le Amazzoni, per perpetuare la loro specie, si recavano presso un popolo vicino, i Gargarei, e si accoppiavano con loro.
Della propria prole, le Amazzoni si occupavano solo se si trattava di femmine; i maschi venivano restituiti ai Gargarei, oppure mutilati volontariamente (accecandoli o azzoppandoli) per evitare che, una volta adulti, si ribellassero all’autorità delle donne.
Il regno delle Amazzoni era governato da una o, secondo altri, due regine. Le uniche divinità di cui era consentito il culto erano Ares e Artemide, rispettivamente dei della guerra e della caccia.
E caccia e guerra erano anche le uniche attività di cui amassero occuparsi le Amazzoni, che sin dalla prima infanzia si sottoponevano a severissimi addestramenti per eccellere in entrambe le discipline. Addirittura, secondo lo storico greco Diodoro Siculo (I sec. a.C.), nella società amazzone vigeva la consuetudine di amputare il seno destro delle adolescenti, affinché fossero in grado di maneggiare l’arco con maggiore disinvoltura. Di qui l’origine del loro nome, che secondo un’etimologia discussa potrebbe significare “senza mammella”.
Nel mito antico, le Amazzoni vengono fatte combattere (e perdere) con tutti i maggiori eroi greci, da Eracle a Teseo, da Bellerofonte ad Achille, in uno scontro che spesso prefigura la lotta tra il mondo classico e le barbarie orientali. Anche il dio del vino Dioniso dovette vedersela con le Amazzoni, che sottomise durante il suo viaggio di civilizzazione in Oriente.


IL CINTO CONTESO


Il più conosciuto mito greco sulle Amazzoni ha per protagonista Ippolita e il suo cinto. La regina lo aveva ricevuto in dote dal padre Ares che, donandoglielo, aveva voluto rimarcare la sua predilezione per lei e il potere che le attribuiva sulle altre Amazzoni. Ma la fama del cinto si diffuse presto in tutta la Grecia, e a Micene Admeta, figlia del pavido Euristeo, si incaponì affinché il padre glielo procurasse. Così Euristeo convocò Eracle, che in quel periodo si trovava al suo servizio per purificarsi dell’omicidio della moglie Megara, e gli ordinò di portargli la cintura.
Fu questa la nona fatica di Eracle, che raccolse attorno a sé un manipolo di eroi (tra cui Teseo) e con loro si recò in Tracia. Qui Ippolita lo accolse benevolmente, dicendosi disposta a cedergli la cintura; ma Era, sotto mentite spoglie, suscitò una disputa tra Greci e Amazzoni: nella zuffa che ne seguì Eracle, sentendosi ingannato, uccise Ippolita.
Altre fonti sostenevano invece che l’ostilità delle Amazzoni verso Eracle si fosse manifestata sin dall’arrivo in Tracia dell’eroe. Di qui una lotta senza quartiere contro i Greci i quali, per difendersi, catturarono Melanippe, sorella di Ippolita. Allora la regina, pur di riavere Melanippe, si disse disposta a scambiarla con la propria cintura; ma un malinteso al momento dello scambio fece esplodere le ostilità e provocò l’uccisione di Ippolita da parte di Eracle.
Esisteva infine una tradizione ateniese secondo la quale Ippolita non era morta per mano di Eracle ma di Teseo. I motivi della morte erano ritenuti i più vari: secondo alcuni la regina era stata uccisa in battaglia mentre, alla testa delle Amazzoni, marciava sull’Attica per liberare Antiope, rapita da Teseo. Ma altre fonti parlavano invece di una morte di crepacuore, causata dal dolore per essere uscita sconfitta nello scontro con l’eroe.


IL FIUME DELLE AMAZZONI


Il ricordo delle Amazzoni sopravvisse a lungo nella memoria dell’Occidente, tanto che ancora nel XVI secolo lo spagnolo Francisco de Orellana ribattezzava Rio delle Amazzoni – in onore di una tribù di donne-guerriere che sosteneva di aver incontrato – l’immenso fiume brasiliano appena esplorato. Più prosaicamente, l’arte figurativa si appassionò al tema delle Amazzoni per le sue potenzialità bellico-erotiche, che traspaiono per esempio nei dipinti dedicati alle figlie di Ares da Giulio Romano, Pieter Paul Rubens e William Morris. Poco attratta dal mito delle Amazzoni la letteratura, che tuttavia ne offrì un’interessante lettura romantica nella tragedia Penthesilea (1808) di Heinrich von Kleist. Al contrario, la musica, soprattutto nel Seicento, dedicò alle donne-guerriere parecchie opere, tra cui L’Amazzone corsara di Alessandro Scarlatti.


domenica 18 novembre 2012

URANIA



Il suo nome significava “cielo”, e degli spazi celesti Urania conosceva anche i minimi dettagli. Affascinante Musa dell’astronomia, era spesso raffigurata come una giovane maga, con una veste di seta azzurra, la testa coronata di stelle e, al fianco, un grande globo raffigurante la volta celeste. Ma tra le mani Urania teneva quasi sempre un compasso, a riprova degli stretti legami che, per i Greci, intercorrevano tra l’astronomia, la geometria e la matematica.
Divinità priva di un ciclo mitologico proprio, Urania era una delle nove Muse, le dee ispiratrici del canto e di tutte le attività intellettuali. Dette anche Eliconie perché avevano sede sul monte Elicona, in Beozia, le Muse in origine erano appena tre. Solo in età classica si cominciò a considerarle nove, anche se alcuni autori ne ridimensionavano il numero a quattro, sette oppure otto.

GENEALOGIA DI URANIA

Al pari delle altre Muse, Urania era figlia della dea della Memoria Mnemosine e del signore dell’Olimpo Zeus, che avevano generato le nove sorelle nel corso di altrettante notti d’amore.
La patrona dell’astronomia aveva dunque origini assai nobili, poiché tra i suoi antenati poteva vantare i tre sovrani che si erano succeduti sul trono del cosmo dall’inizio dei tempi: il primordiale Urano, che della giovane musa era nonno materno; il terribile Crono, a cui Urania era legata tramite il padre Zeus; e, appunto, Zeus, grazie al quale Urania e le sue sorelle – caso quasi unico al di fuori della cerchia degli dèi più potenti – avevano il privilegio di poter risiedere sull’Olimpo. Altre tradizioni mitologiche attribuivano invece a Urania – e alle Muse in genere – un’origine differente, facendole discendere da Urano e Gaia oppure da Armonia, la bellissima dea della concordia, e da un padre di identità misteriosa.

LE DEE DEL CANTO

Le Muse, in epoca arcaica, erano considerate semplicemente le dee ispiratrici della musica, la più nobile fra tutte le arti. In seguito, tuttavia, le loro funzioni si ampliarono, e nel mondo ellenico si cominciò a pensare alle nove figlie di Zeus e Mnemosine come alle divinità che presiedevano al pensiero nelle sue varie manifestazioni: dall’eloquenza alla storia, dalla poesia all’astronomia fino al teatro.
Spesso raffigurate nell’atto di rallegrare Zeus con i loro canti e le loro danze, le Muse, secondo il poeta greco Esiodo (VII-VI secolo a.C.), avevano un’influenza benefica anche sulle vite umane: esse, infatti, non solo instillavano nei sovrani l’eloquenza necessaria per placare le dispute e salvaguardare la pace, ma, quando ispiravano i poeti, regalavano loro parole così dolci da placare all’istante le preoccupazioni e le ansie di chi li ascoltava.
Secondo i mitografi greci, le Muse, in quanto dee del canto, avevano un rapporto strettissimo con Apollo, il dio della musica, che era al tempo stesso il loro protettore e il loro signore. Detto non a caso Musagete, cioè “guida delle Muse”, Apollo trascorreva con le sue protette gran parte del proprio tempo, dirigendo i loro cori sul monte Parnaso, presso la città di Delfi, o assistendo alle loro danze attorno alla fonte di Ippocrene, alle pendici del monte Elicona.
L’identità delle singole Muse è stata a lungo oggetto di discussione da parte degli antichi. Tuttavia, man mano che si affermava l’idea che esse fossero nove, anche la loro personalità individuale cominciò a prendere forma. Così, accanto a Urania, la musa dell’astronomia, vi erano Clio, quella della storia, e Polimnia, dea degli inni sublimi. La danza era sotto la protezione di Tersicore, spesso considerata la madre delle Sirene, mentre alla commedia e alla tragedia presiedevano rispettivamente Talia, la “festiva”, e Melpomene.
Infine Calliope, “dalla bella voce”, era considerata la musa della poesia epica, da non confondere con quella lirica, affidata a Euterpe, e con la poesia erotica, a cui presiedeva la fascinosa Erato.

IL CANTORE ARROGANTE

Alla divina Urania molti mitografi greci attribuivano un figlio, Lino, che la musa avrebbe generato con il dio Apollo oppure con il tebano Anfimaro.
Cantore di considerevole talento, Lino aveva perfezionato il suono della lira sostituendone le corde in budello con quelle in fibra vegetale. Tra i suoi meriti, inoltre, si annoverava l’invenzione del ritmo e, forse della melodia, nonché la diffusione in Grecia dell’alfabeto fenicio, che secondo alcuni gli era stato insegnato dall’eroe tebano Cadmo.
Fin troppo consapevole delle sue qualità, Lino finì tuttavia per montarsi la testa, commettendo un errore fatale: sfidò nell’arte del canto Apollo, il quale, indispettito da tanta arroganza, lo uccise.
Un’altra versione del mito sosteneva invece che a uccidere Lino fosse stato Eracle, esasperato dalle continue punizioni di quel maestro troppo severo nei confronti della sua scarsa attitudine musicale.

DUELLI CANORI

La presenza delle Muse nella mitologia greca è al tempo stesso capillare e periferica. Da un lato non si contano i racconti in cui le nove figlie di Mnemosine compaiono nelle vesti di cantatrici e danzatrici divine, con il compito di allietare matrimoni leggendari come quello di Cadmo e Armonia o di celebrare trionfi epocali come la vittoria di Zeus e degli Olimpi sui Titani.
D’altro canto sono rarissimi i miti in cui le Muse assumono il ruolo di protagoniste. Tra questi, uno dei più famosi è quello che celebra il loro duello con le Pieridi, figlie del re di Emazia Pierio, nove sorelle che si ritenevano migliori delle Muse nell’arte del canto: così si recarono sul monte Elicona e le sfidarono, ma furono battute e, per vendetta, le Muse le trasformarono in gazze.
Peggio di loro andò alle Sirene che, avendo anch’esse dubitato della supremazia musicale delle Muse, scoprirono troppo tardi che la magia delle loro voci nulla valeva al confronto di quella delle figlie di Mnemosine, e finirono spiumate – nella mitologia greca, infatti, le Sirene erano donne con corpo da uccello – e private della loro bellezza.
Chi però subì la sorte peggiore fu Tamiri, un cantore tracio che riteneva ineguagliabile la combinazione di note generata dalla sua voce e dalla sua lira. Avendo osato sfidare le Muse in un duello musicale dalla posta altissima – se avesse vinto, infatti Tamiri avrebbe potuto giacere con tutte e nove le Muse – fu, com’era inevitabile, sconfitto. Dovette perciò patire l’immancabile ritorsione da parte delle figlie di Mnemosine che, ancora una volta, si dimostrarono tanto divine nel canto quanto terribili nella vendetta, accecando Tamiri e privandolo proprio di quell’arte canora di cui andava tanto orgoglioso.

LA DECIMA MUSA

Nella letteratura medievale, le Muse sono spesso evocate come rappresentanti delle arti, ma di rado con specifici caratteri individuali. Così Dante, nella Divina Commedia, le invoca genericamente come ispiratrici di poesia, e Shakespeare dedica uno dei suoi sonetti alla decima musa, “dieci volte più degna di quelle antiche”. Anche il poeta romantico Friedrich Schiller celebra indirettamente le figlie di Mnemosine, attraverso la sua rivista Almanacco delle Muse, mentre nella letteratura contemporanea vaghi riferimenti alle nove sorelle si trovano in Baudelaire, Pavese e Sylvia Plath. L’arte figurativa rappresenta più volte le muse, sia attraverso dipinti di Poussin, Goya e De Chirico sia tramite le statue di Canova e Brancusi. Celebri, infine, in campo musicale, le opere-balletto composte sul tema delle muse da Jean-Baptiste Lully e Jean-Jacques Rousseau.

sabato 17 novembre 2012

SELENE



Personificazione ellenica della Luna, Selene, la “splendente”, era una dea sfuggente e misteriosa. Raffigurata come una giovane donna che percorre il cielo su una carro d’argento trainato da cavalli, compariva raramente nei miti, e quasi sempre come oggetto del desiderio di divinità maschili più note. In un solo caso gli antichi le attribuirono un ruolo da protagonista: nel mito di Endimione, il fascinoso re dell’Elide per il quale Selene aveva completamente perso la testa…
Nel mondo greco il culto di Selene non era molto sentito. Tuttavia la sua figura distante ed erotica al tempo stesso non poteva suggestionare i poeti, che difatti ne cantarono a più riprese il fascino. Con il passaggio al mondo romano, poi, la dea della luna venne identificata con quella della caccia Diana, in una sovrapposizione di attributi che contribuì a renderne popolare la figura.

GENEALOGIA DI SELENE

Assimilabile ad analoghe ma più antiche divinità lunari, come la mesopotamica Ishtar e l’egizia Iside, Selene era figlia di Titani. I suoi genitori, difatti, erano Iperione e Teia, dèi della prima generazione, nati entrambi dagli amori tra Urano, il Cielo, e Gaia, la Terra. Iperione e Teia, benché fratelli, avevano presto scoperto di amarsi, e dalla loro relazione erano nati tre figli: oltre a Selene, anche Eos, l’Alba, ed Elio, il Sole. I tre erano legati da grande affetto reciproco, ma Selene prediligeva il fratello Elio, al punto che si diceva che fosse la sua amante e che con lui avesse generato le Ore. Ma queste erano versioni minori del mito, che in genere attribuiva a Selene un’unica figlia, Pandia, nata dalla sua relazione con Zeus. Altri autori, invece, sostenevano che, oltre a Pandia, Selene con il re dell’Olimpo avesse generato anche Erse, la Rugiada, più spesso però ritenuta figlia di Eos. C’erano infine molti mitologi secondo i quali anche l’unione di Selene con Endimione era stata feconda, anche se esistevano parecchie incertezze circa l’identità e il numero dei figli generati dalla coppia.

GLI AMORI DELLA DEA

Divinità multiforme e inafferrabile, Selene era ricordata soprattutto per i suoi numerosi amori, quasi sempre circondati da un’aura di mistero. A partire dal primo e più importante (almeno in termini gerarchici), quello con Zeus, sul quale non a caso non esistevano o quasi leggende. Certamente più ricca di risvolti la storia d’amore tra Selene e Pan, il dio-capro, anche se alla fine l’intero mito si riduceva all’inganno escogitato da quest’ultimo per sedurre la Luna. Consapevole di ripugnare alla dea, che trovava disgustoso il suo pelo nero e irsuto, Pan di avvolse infatti completamente in un candido manto di pecora, rendendosi irriconoscibile. In tal modo riuscì a possedere la Luna, anche se poi dovette farsi perdonare l’inganno regalandole una mandria di sua proprietà.
Tra gli amori vissuti da Selene, il più popolare era comunque certamente quello per Endimione, il re pastore, al quale la dea era legata da una passione irrefrenabile. Pur di incontrarlo nella sua grotta, Selene spariva ogni notte dietro la cresta del monte Latmio, in Asia Minore, lasciando il cielo nell’oscurità. E poiché temeva che un giorno quel giovane così affascinante potesse lasciarla, Selene finì per imprigionarlo in un sonno eterno, così da potersi recare indisturbata ogni notte nel suo antro ad ammirarlo.
Altre leggende sostenevano invece che il sonno da cui era stato sopraffatto Endimione fosse una punizione di Zeus, piccato perché aveva scoperto il giovane mentre corteggiava sua moglie Era. E altre ancora, al contrario, interpretavano il letargo di Endimione come un dono di Zeus, che in tal modo aveva soddisfatto la richiesta del giovane di sfuggire alla vecchiaia e alla morte. Qualunque versione scegliessero di abbracciare, su un punto la maggior parte dei poeti che aveva raccontato il mito sembrava concorde: quella tra Selene ed Endimione era stata un’unione feconda. Addirittura qualcuno, come lo scrittore greco Pausania, si spingeva a quantificare il numero delle figlie nati dagli amori tra il pastore e Selene, contandone almeno cinquanta.


UN CULTO MINORE

Nel pantheon greco, Selene era una divinità secondaria, quasi periferica. Non a caso, per quanto ne sappiamo, in tutto il mondo ellenico le era dedicato un unico tempio, in Laconia, dove peraltro le si attribuivano anche poteri oracolari.
Più sentita la venerazione per Selene a Roma, se non altro per la frequente identificazione con Diana, la dea della caccia. Anche nell’Urbe, peraltro, esisteva un solo tempio specificatamente dedicato alla Luna: si trovava sull’Aventino e si diceva l’avesse inaugurato Servio Tullio, il sesto re della città.

IL DIO DEL SOLE

Fratello di Selene, Elio, il dio del Sole, era descritto come un giovane bellissimo, prestante, con la testa circonfusa di raggi che davano ai suoi capelli affascinanti sfumature d’oro. Considerato “l’occhio del mondo”, che tutto vede e tutto sente, era spesso interpellato dalle altre divinità per sapere ciò che era sfuggito al loro sguardo: così Demetra si rivolse a lui per sapere chi le avesse rapito la figlia Persefone, mentre Efesto scoprì proprio dal dio del Sole i tradimenti di sua moglie Afrodite con Ares.
In genere, tuttavia, nei racconti e nelle raffigurazioni mitologiche, Elio era quasi sempre rappresentato al “lavoro”, mentre percorreva il cielo sul suo carro di fuoco trainato da cavalli velocissimi: Piroide, Eoo, Etone e Flegone, tutti nomi che richiamano l’idea del fuoco, della fiamma o della luce.
Secondo il mito, Elio partiva ogni mattina all’alba dal palazzo d’oro che aveva in Oriente; percorreva quindi l’intera volta celeste lungo lo stretto sentiero che taglia in due il cielo, e la sera si riposava nel suo palazzo d’Occidente, mentre i cavalli, stremati, pascolavano sull’isola dei Beati.
Sposato con Perseide, una ninfa figlia di Oceano e Teti, Elio aveva avuto da lei diversi figli, tra cui la maga Circe. Ma il figlio che più gli somigliava era Fetonte, nato dalla sua relazione con la bella Climene, un giovane ambizioso al quale, in un’occasione, Elio aveva addirittura concesso di guidare il carro solare. Un errore fatale, perché Fetonte, incapace di tenere a bada i focosi destrieri, aveva perso totalmente il controllo del carro, giungendo a un passo dall’incenerire la Terra. Fu così costretto ad intervenire Zeus che, per evitare una conflagrazione universale, dovette fulminare con una folgore Fetonte, di cui poi fece precipitare il corpo esanime nel fiume Eridano.



UNA PASSIONE IMMORTALE

Nel mondo postclassico, l’unico mito su Selene che sopravvisse alla dimenticanza fu quello relativo alla passione della dea per Endimione. Così John Lyly, autore elisabettiano, dedicò a quell’amore impossibile un dramma mitologico (Endymion, the Man in the Moon), seguito poi da Pietro Metastasio che nel 1721, a ventun anni, costruì sulla vicenda la sua prima serenata musicale. Anche Oscar Wilde si interessò al mito, sul quale scrisse una poesia in cui il sonno di Endimione è interpretato come l’estremo custode di una bellezza senza macchia. In campo figurativo, la passione tra Selene e il re pastore è stata tra l’altro immortalata da Antoon Van Dick, Nicolas Poussin e Anton Raphael Mengs, mentre la musica ha utilizzato il mito come soggetto idillico in numerose opere del XVII-XVIII secolo, tra cui una cantata di Johann Sebastian Bach (1713).

giovedì 15 novembre 2012

ORESTE




Può un delitto essere giusto? Da questa domanda nasce la figura di Oreste, il più “teatrale” tra gli eroi greci, amato dai grandi tragici come Eschilo, Sofocle ed Euripide, adombrato da Shakespeare nella figura di Amleto, spesso ripreso anche da autori novecenteschi. Un giustiziere tormentato e infelice, matricida per vendicare l’assassinio del padre e perseguitato dalle Erinni per questo suo delitto. Un vero eroe di frontiera, perennemente in bilico tra colpa, follia e innocenza.
La figura di Oreste ha origini molto arcaiche: già Omero, nell’Iliade, parlava di lui come del vendicatore del padre, pur senza accennare all’uccisione di Clitennestra. Fu però con Eschilo ed Euripide che Oreste divenne un eroe popolare, protagonista di un ciclo di tragedie nelle quali, attraverso le sue disavventure, ci si interrogava sui temi etici di giustizia, punizione e vendetta.

GENEALOGIA DI ORESTE

Nell’albero genealogico di Oreste, il tragico e il divino si mescolano in ugual misura. Se infatti la madre dell’eroe, Clitennestra, era figlia nientemeno che di Zeus, il dio supremo, il padre Agamennone, re di Micene, discendeva invece da quell’Atreo che, per vendetta, era giunto a uccidere i tre figli del fratello Tieste e a darglieli in pasto a sua insaputa. Di qui la maledizione che gravava su tutta la famiglia di Tieste, a partire proprio da Agamennone. Questi infatti, dopo aver accettato di sacrificare la figlia Ifigenia – poi miracolosamente salvata da Artemide – pur di consentire la partenza verso Troia delle navi achee (bloccate da una bonaccia), aveva rischiato di essere la causa della sconfitta greca litigando furiosamente con Achille. Al ritorno in patria, poi, era stato ucciso dalla moglie Clitennestra con la complicità dell’amante Egisto, figlio di Tieste, che così aveva vendicato l’offesa patita dal padre. In questo vortice di passioni, tradimenti e delitti, il piccolo Oreste, in quanto erede designato di Agamennone, pareva destinato al ruolo di vittima sacrificale. Ma lo salvò l’intervento di Elettra, sua sorella maggiore, che fece condurre il fratello di nascosto in Focide e lo affidò a Strofio, sovrano della regione, da cui fu cresciuto come un figlio.

DELITTO E CASTIGO

Una volta adulto, Oreste ricevette da Apollo l’ordine di vendicare il padre uccidendo la madre Clitennestra e il suo amante Egisto. Egli si recò dunque ad Argo insieme all’amico Pilade, figlio di Strofio, e si fece passare per un messaggero a cui era stato affidato il compito di annunciare la morte di Oreste.
Non appena ebbe saputo la notizia, Clitennestra non nascose il suo sollievo: con la morte di Oreste, infatti, scompariva l’unico testimone che avrebbe potuto punirla per i suoi delitti. Convocò quindi a corte Egisto per festeggiare con lui l’accaduto. Ma mentre di recava a palazzo, l’uomo fu sorpreso e ucciso da Oreste, che poi affrontò la madre. Invano la donna tentò di placare il figlio mostrandogli il petto da cui aveva succhiato il latte; il giovane, inizialmente esitante, ritrovò di colpo la determinazione quando Pilade gli ricordò come il delitto gli fosse stato ordinato da Apollo. Così sguainò la spada e trafisse a morte Clitennestra.
Pochi giorni dopo, al funerale della madre, l’eroe venne per la prima volta visitato dalle Erinni, le dee della vendetta, che suscitarono in lui un rimorso inestinguibile. Oreste cercò allora conforto a Delfi, nel santuario di Apollo, dove venne purificato da dio in persona. Ma l’intervento di Apollo non bastò a liberare dalla follia del rimorso Oreste, che dovette perciò recarsi ad Atene e sottoporsi a un regolare processo, celebrato nel luogo dove, più tardi, sarebbe sorto l’Areopago, il più sacro tra i tribunali ateniesi.
Nel contraddittorio, l’accusa contro Oreste fu sostenuta dalle Erinni (o, secondo altre fonti, dal padre di Clitennestra), mentre l’eroe, come d’uso, si difese da solo. Dopo il dibattimento, si giunse al momento del verdetto, che vide i giurati dividersi esattamente a metà. Toccò quindi ad Atena esprimere il parere finale, e la dea assolse l’eroe che, in segno di ringraziamento, le eresse un altare nel luogo del processo.


SUL TRONO DEL PADRE

Dopo l’assoluzione nel processo, Oreste chiese ad Apollo, tramite l’oracolo di Delfi, come dovesse agire. La Pizia gli rispose che, se voleva liberarsi definitivamente dalla follia, doveva recarsi in Tauride (l’odierna Crimea) e sottrarvi la statua di Artemide che il re di quella regione, Toante, conservava.
Così l’eroe, in compagnia dell’inseparabile Pilade, si mise in viaggio verso il Mar Nero; ma, al suo arrivo, fu catturato dagli abitanti della regione che, come loro consuetudine, destinarono lui e Pilade, in quanto stranieri, a essere sacrificati alla dea Artemide.
La sacerdotessa che doveva occuparsi del rito era però Ifigenia, sorella di Oreste, la quale riconobbe il fratello e, svelata la propria identità, si offrì di aiutarlo nel furto della statua. Si recò perciò da Toante e gli comunicò di non poter sacrificare lo straniero (colpevole di un delitto orrendo come il matricidio) senza prima aver purificato lui e la statua di Artemide nell’acqua.
Il re assentì e Ifigenia, recatasi in riva al mare, riuscì con un pretesto ad allontanare le guardie della scorta e a imbarcarsi con Oreste e Pilade su una nave attraccata lì vicino, fuggendo con la statua.
Dopo questa ennesima disavventura, Oreste, ormai libero dalla sua maledizione, decise di far valere i propri diritti. Si recò perciò a Sparta e rapì sua cugina Ermione, figlia del re Menelao, che gli era stata promessa in sposa quando era poco più di un bambino. Quindi convolò a nozze con la fanciulla, non senza però averne ucciso il marito Neottolemo, figlio di Achille, con il quale Ermione era infelicemente sposata.
In seguito Oreste divenne re di Argo e Sparta, città rimaste senza eredi al trono, e regnò su entrambe per settant’anni, lasciandole quindi in dote al suo unico figlio Tisameno, che però sarebbe stato ucciso dai discendenti di Eracle.

VARIAZIONI SUL MITO

Se nelle sue linee generali il mito di Oreste appare abbastanza definito, numerose sono però le varianti legate ai vari autori che l’hanno trattato. Nella versione omerica, per esempio, quale emerge soprattutto dall’Odissea, Oreste uccide Egisto e Clitennestra senza alcuna esitazione, e dopo il delitto non viene tormentato dalle Erinni, in quanto il suo omicidio è un atto di pura giustizia. Eschilo, invece, fa scattare la persecuzione delle dee della vendetta immediatamente dopo l’assassinio, mentre per Sofocle (che concentra la sua attenzione soprattutto su Elettra) l’eroe esita a lungo prima di uccidere la madre. Infine, in Euripide, il tema delle Erinni torna in primo piano, tanto che Oreste, per liberarsi dalla loro presenza, non solo deve sottoporsi al processo in Atene ma anche al lungo viaggio di espiazione in Tauride.


UN EROE CARO AI DRAMMATURGHI

Affermatosi come uno dei temi portanti della tragedia greca, il mito di Oreste ha continuato, anche in epoca postclassica, ad avere una valenza soprattutto teatrale. Così, a partire dal XV secolo, non si contano gli autori che hanno accettato l’ardua sfida di misurarsi con la voce drammatica dei tragediografi greci: da Giovanni Rucellai, con il suo Oreste (tragedia ispirata all’Ifigenia in Tauride di Euripide) a Vittorio Alfieri, da Wolfgang Goethe a Voltaire. Per non parlare, in epoca già quasi contemporanea, di Jean-Paul Sartre (Le Mosche) e Jean Giraudoux (Elettra). Meno cospicua la presenza del mito di Oreste negli altri ambiti artistici, anche se non si possono scordare l’opera Elettra di Richard Strauss, su libretto di Hugo von Hofmannsthal, e il celebre dipinto I rimorsi di Oreste del francese William-Adolphe Bouguereau.

lunedì 12 novembre 2012

DEMETRA (CERERE)


 Era una dea al tempo stesso solare e oscura, rassicurante e temuta. Il suo nome evocava negli antichi Greci la fertilità dei campi e il biondeggiare delle messi, perché, in quanto patrona dell’agricoltura, da lei dipendevano la ricchezza dei raccolti e l’abbondanza del cibo. Ma Demetra era anche una divinità notturna: madre della regina degli Inferi Persefone, era considerata un tramite per accedere già da vivi ai misteri dell’Oltretomba.
Divinità connessa al ciclo della natura, Demetra (la Cerere romana) era quasi sempre abbinata alla figlia Persefone, con la quale veniva adorata a Eleusi nei culti misterici. Non aveva invece particolari legami con Gaia, la madre Terra, cui pure talora veniva associata: mentre infatti Demetra era la dea dei campi e delle messi, la figura di Gaia rimandava ai miti sulle origini del cosmo che, insieme al marito Urano, aveva contribuito a generare.

GENEALOGIA DI DEMETRA

Figlia dei Titani Crono e Rea, Demetra era una delle tre rappresentanti femminili del numeroso clan degli Olimpi, guidato con ferrea autorità dal signore delle folgori Zeus. Figura spesso defilata nelle lotte e negli intrighi di potere, ebbe tuttavia amanti importanti, come i fratelli Zeus e Poseidone. Insieme al primo generò Persefone, la sua figlia prediletta, poi rapita e sposata con l’inganno da Ade, il re dei morti. Dalle avances del secondo tentò invece di sottrarsi in ogni modo, fino al punto di assumere le sembianze di una giumenta. Ma proprio questa trasformazione le fu fatale: Poseidone, infatti, assunta la forma di un cavallo, riuscì infine a possederla. Dal loro rapporto nacquero Arione, un mitico cavallo a cui si attribuiva il dono della parola, e una misteriosa figlia della quale era vietato pronunciare persino il nome (la si chiamava la Dama o la Padrona). Altro celebre amore di Demetra fu quello per Iasione, un giovane cacciatore cretese al quale si concesse in un campo arato tre volte e che fu, secondo alcuni miti, ucciso con un fulmine da Zeus, in un impeto di gelosia. Dalla loro unione nacque Pluto, dio greco della ricchezza.

IL LUNGO ESILIO

La fama di Demetra è legata soprattutto al mito del rapimento di Persefone. La fanciulla, che cresceva felice tra le ninfe della Sicilia, fu sorpresa da dio dei morti Ade mentre coglieva un giglio in un prato e trascinata negli Inferi. Cominciò allora per Demetra la lunga ricerca della figlia, una dolente peregrinazione che la condusse a percorrere a piedi l’intero mondo. Per nove giorni e nove notti, senza mangiare né bere, la dea errò da un capo all’altro della terra, con una fiaccola accesa nelle mani. Infine, disperata, si rivolse al Sole, l’unico che, dall’alto, poteva aver visto tutto. E il dio le svelò il nome del rapitore.
Furiosa, Demetra si rifiutò di tornare sull’Olimpo finché non le fosse stata restituita Persefone. Assunte le sembianze di una vecchia, accettò dapprima l’ospitalità di un’anziana donna, il cui figlio Stellione osò però deriderla per l’avidità con cui  si dissetava da una brocca: e lei, per ripicca, lo trasformò in lucertola. Poi approdò a Eleusi, dove si mise al servizio della regina Metanira, moglie di Celeo, come nutrice del piccolo Demofonte. Affezionatasi al bambino, la dea volle donargli l’immortalità purificandolo nel fuoco; ma poiché l’intervento di Metanira glielo impedì, si fece riconoscere. Prima di lasciare la casa, affidò all’altro figlio di Metanira, Trittolemo, il compito di diffondere nel mondo la coltivazione del grano.
Nel frattempo, l’esilio volontario di Demetra aveva reso la Terra sterile. Zeus, perciò, intervenne, ordinando ad Ade di restituire Persefone alla madre. La cosa, però, non era più possibile, in quanto la fanciulla aveva mangiato un chicco di melagrano che la legava per sempre agli Inferi.  Zeus, quindi, fu costretto a escogitare un compromesso: Demetra sarebbe tornata sull’Olimpo e Persefone avrebbe diviso l’anno fra l’Oltretomba e sua madre. La Terra riprese così a dare i suoi frutti, ma solo nei mesi estivi, quando Demetra, felice per la vicinanza della figlia, rende fertili i campi.


I MISTERI ELEUSINI

Il culto di Demetra era diffuso in tutte le aree rurali della Grecia, ma principalmente in Attica dove, secondo alcune leggende ateniesi, aveva avuto origine l’agricoltura. Ogni anno, in autunno, gli abitanti delle regioni onoravano con grande fasto la dea nei Misteri Eleusini, una tra le festività più importanti dell’intero mondo ellenico. Si trattava di riti di tipo esoterico, riservati ai soli adepti, che potevano accedervi attraverso un percorso iniziatico. Le cerimonie, collocate in principio a ottobre, prendevano il via con il bagno purificatore dei fedeli, che si immergevano nelle acque del Pireo, il porto di Atene, o in due ruscelli cari a Demetra e Persefone. Partiva quindi la grande processione verso Eleusi, situata a circa trenta chilometri dalla capitale: il cammino si svolgeva lungo una via sacra costellata di tempietti, davanti ai quali i fedeli si fermavano  a pregare e compiere sacrifici.
All’arrivo a Eleusi, la sera, i pellegrini raggiungevano il cortile del tempio dove trascorrevano gran parte della notte eseguendo canti e danze in onore di Demetra. Questa parte dei riti era aperta a tutti.
La mattina seguente, invece, avevano inizio i riti misterici veri e propri, che duravano alcuni giorni e si svolgevano all’interno di un edificio sacro noto come Telesterion. Il contenuto di queste cerimonie non ci è noto, ma si presume che esse comprendessero una sorta di deambulazione sacra all’interno del tempio, con canti, letture, travestimenti e uso di maschere. Oggetto del rito doveva essere la rievocazione del rapimento di Persefone e della dolorosa ricerca di Demetra. Il momento culminante era quello in cui lo ierofante, il sacerdote, annunciava ai fedeli il ritorno della dea rapita. Nati come culto agrario volto a propiziare l’abbondanza dei raccolti, i Grandi Misteri (da non confondere con i primaverili Piccoli Misteri, che avevano funzione essenzialmente preparatoria) assunsero però anche carattere salvifico: quanti vi partecipavano, infatti, si assicuravano la beatitudine nell’Oltretomba, indipendentemente dal loro comportamento in vita e dal rispetto delle regole morali.

L’ESTASI DIONISIACA

Accanto a Demetra, l’altra grande divinità misterica del mondo greco era Dioniso, il dio del vino. Nel suo caso, però, i riti di iniziazione avevano carattere marcatamente femminile e non erano legati a un tempio particolare.

UNA DEA “AGRICOLA”

Il culto di Demetra, dea legata alle messi e al ciclo delle stagioni, era particolarmente diffuso nelle regioni con un’economia incentrata sulla coltivazione del frumento, come la Sicilia e altre zone della Magna Grecia.


TRITTOLEMO E LE TESMOFORIE

Alla figura di Demetra erano dedicate anche le Tesmoforie, una festa religiosa che celebrava la dea in quanto fondatrice dell’agricoltura, del matrimonio  e del vivere civile. Secondo alcune leggende, a istituire la festa era stato Trittolemo, il figlio di Celeo, ritenuto particolarmente caro a Demetra.

LA CERERE MODERNA

La storia del triste esilio sulla Terra di Demetra ha un riflesso nella letteratura solo a partire dal XVII secolo. A quell’epoca, infatti, risale il poema Troia Britanica dell’inglese Thomas Heywood, dove la latina Cerere prega Ercole di aiutarla a ritrovare la figlia. In seguito Demetra è protagonista di una poesia di Friedrich Schiller, di un monologo di Alfred Tennyson e di un racconto dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. In campo pittorico, le più celebri rappresentazioni di Demetra sono firmate da Antoine Watteau, Luca Giordano e Hans von Aachen (che la raffigura in compagnia di Eros e Dioniso). Da segnalare anche un dipinto del fiammingo Jacob Jordaens e una statua di Auguste Rodin. Rare sono le opere musicali sulla dea, ma tra queste la più notevole è forse una cantata di Karol Szimanoswki per soprano, coro femminile e orchestra.

giovedì 8 novembre 2012

SIBILLA


 Il nome Sibilla, nell’antica Grecia, indicava qualunque sacerdotessa di Apollo avesse ricevuto dal dio il dono della profezia. Dunque non una figura precisa, bensì una schiera di veggenti distinguibili soprattutto per la regione in cui erano nate. Così c’era la Sibilla Libica, la Sibilla Eritrea e, più celebre di tutte, la Sibilla Cumana. Esisteva anche una Sibilla di Marpessa, in Troade, che come Cassandra, la famosa profetessa di sventure, era nota perché annunciava quasi solo disgrazie.
Secondo alcuni autori erano quattro, secondo altri dieci. Platone ne ricorda una sola, mentre poeti di epoca più tarda giunsero a contarne trenta. Insomma, il numero delle sibille era, per i greci antichi, misterioso quanto le loro profezie che svelavano sì agli uomini il futuro, ma nel linguaggio iniziatico degli enigmi e dei culti misterici.

GENEALOGIA DELLE SIBILLE

Delle tante Sibille di cui parla la mitologia, poche hanno una genealogia ricostruibile o degna di nota. La Sibilla di Marpessa, Erofile, per esempio, era ritenuta figlia di un’ignota ninfa dei boschi e di un pastore della Troade chiamato Teodoro, due personaggi troppo anonimi perché gli autori greci si preoccupassero di ricostruirne le ascendenze. Del tutto sconosciute anche le genealogie della Sibilla Cumana e di quella Tiburtina, le due più celebri profetesse italiane, mentre l’identità dei genitori della Sibilla d’Eritre, in Lidia, coincide curiosamente con quella del padre e della madre della Sibilla di Marpessa. Ben più chiare le origini della prima di tutte le Sibille, di origine troiana, e della Sibilla Libica: l’una era una giovane fanciulla, di nome appunto Sibilla, nata dall’unione tra l’eroico Dardano, discendente da Zeus, e la Nereide Neso, figlia del re della Troade Teucro. Quanto alla Sibilla Libica, aveva addirittura due divinità tra i suoi antenati: il padre Zeus, che l’aveva generata con la bellissima regina di Libia Lamia, e il nonno materno Poseidone.

LA “DIVINA FOLLIA”

Un grande filosofo come Platone faceva discendere l’arte della profezia, la cosiddetta “mantica”, dalla parola greca mania, follia: essa, dunque, era l’espressione di un sapere irrazionale che oltrepassava le possibilità della conoscenza umana.
A questo tipo di illuminazione, secondo i Greci, si poteva accedere per vie diverse: ad esempio praticando l’oniromanzia, l’interpretazione dei sogni, oppure la necromanzia, che consisteva nell’entrare in contatto, tramite speciali riti, con i defunti. C’era poi l’empiromanzia, ossia l’arte di trarre presagi dall’osservazione del fuoco dei sacrifici, o, ancora, la iatromanzia, una variante dell’oniromanzia legata alla decifrazione dei sogni dei malati. Una forma particolare di divinazione era infine quella che veniva praticata nei templi come Delfi, dove il dio parlava direttamente agli uomini per bocca del suo oracolo.
In tutte queste forme di divinazione, un ruolo cruciale aveva comunque sempre il prophetes che, in stato di trance, si lasciava possedere dal dio esprimendone la volontà. Gli indovini greci erano personaggi leggendari o che si ricollegavano a un mitico capostipite. Non erano sacerdoti in senso stretto, né la pratica della loro arte era legata a un tempio particolare. Spesso, anzi, erano figure itineranti, come la Sibilla di Marpessa, che profetizzava l’imminente distruzione di Troia vagando di città in città con un grosso masso su cui saliva per lanciare i suoi spaventosi vaticini.
La facoltà di farsi portavoce della volontà di Apollo poteva essere posseduta in ugual misura da uomini e donne. Tra i primi, molto noti erano l’omerico Calcante, infallibile nell’interpretazione del volo degli uccelli, e il tebano Tiresia, che predisse la morte di Narciso e svelò colpe di cui, a sua insaputa, si era macchiato Edipo. In ambito femminile, invece, le veggenti di maggior fama furono la troiana Cassandra, profetessa di sventura, e le varie Sibille, una delle quali, nata a Eritre, in Lidia, aveva predetto che sarebbe stata uccisa da una freccia del suo dio, Apollo. Cosa che in effetti avvenne, ma solo dopo che la donna aveva vissuto per quasi mille anni.

IL RISARCIMENTO

Esistevano varie leggende sul modo in cui il tebano Tiresia aveva acquisito l’arte della profezia. Una delle più celebri sosteneva che a donargliela fosse stata Atena, come risarcimento per averlo accecato dopo che l’indovino, casualmente, l’aveva vista nuda mentre si lavava in una sorgente.


L’OMBELICO DEL MONDO

Il tempio di Delfi, sul monte Parnaso, era il più importante dell’antichità, e per questo veniva chiamato “l’ombelico del mondo”. Il suo oracolo, controllato da Apollo, attirava da tutta la Grecia numerosi fedeli, ansiosi di conoscere i responsi che la Pizia, la sacerdotessa devota al dio, pronunciava seduta su un tripode.

PUNITA DA APOLLO

Amata da Apollo, la troiana Cassandra rifiutò il corteggiamento del dio e, per questo, fu condannata a profetizzare senza essere creduta. Dopo la presa di Troia, venne oltraggiata da Aiace Oileo nel tempio di Atena e poi ceduta al re Agamennone che, innamorato, la portò con sé a Micene. Morì per mano della moglie di Agamennone.

VISIONI PROFETICHE

Dio profetico per antonomasia, Apollo aveva decine di oracoli sparsi per tutto il Mediterraneo. Molto celebri, oltre a quello di Delfi, erano gli oracoli di Didima, presso Mileto, e di Hieropolis, in Siria, dove il dio si esprimeva senza mediazioni umane, attraverso movimenti e prodigi compiuti da un suo simulacro. In territorio greco, un oracolo particolare era invece quello di Trofonio, creato su richiesta di Apollo a Lebadea, in Beozia. Qui il fedele veniva condotto in un antro sotterraneo nel quale, seduto sul bordo di una voragine, piombava in uno stato di allucinazione accompagnato dalla sensazione di sprofondare nel baratro. Toccava quindi ai sacerdoti interpretare quello che il fedele aveva potuto sperimentare nel corso delle sue visioni.

LA SIBILLA DI CUMA

La maggior parte delle leggende relative alle profetesse di Apollo sono di origine latina e riguardano la Sibilla Cumana. Forse nata ad Eritre, nell’odierna Turchia, questa sacerdotessa profetizzava da una grotta situata presso l’antica città di Cuma, in Campania. Di lei si diceva che avesse fatto innamorare Apollo al quale, in cambio della sua verginità, aveva chiesto tanti anni di vita quanti erano i granelli di sabbia che poteva tenere in una mano. Apollo acconsentì, ma a patto che ella non toccasse mai più il suolo di Eritre. Cosa che la Sibilla Cumana fece. Ma un giorno, avendo ricevuto una missiva, non si accorse che il sigillo era sporco di terra di Eritre e, nel tentare di aprirla, morì.
Una variante dello stesso mito racconta invece che la Sibilla Cumana, nel chiedere ad Apollo l’eternità, si fosse scordata di pretendere da lui anche l’eterna giovinezza. Così, invecchiando, divenne sempre più minuscola e rinsecchita, fino a che, ridotta alle dimensioni di un insetto, venne chiusa in un vasetto da dove, a chi le chiedeva i suoi vaticini, rispondeva solo di voler morire.
La Sibilla Cumana compare anche nell’Eneide, dove Virgilio le affida il compito di guidare il troiano Enea negli inferi. È lei in particolare a placare l’ira di Caronte mostrandogli un ramoscello d’oro, e quindi a condurre l’eroe nel cuore dell’oltretomba, dove Enea incontrerà le ombre della moglie suicida Didone e del padre Anchise.
Un’ultima leggenda racconta infine che un giorno la Sibilla Cumana si presentò da Tarquinio il Superbo offrendogli i sei libri contenenti gli oracoli sibillini. Tarquinio rifiutò, ritenendo il prezzo troppo alto, e allora la Sibilla bruciò uno dei sei libri. La scena si ripeté altre due volte, sempre con lo stesso esito, finché il re, incuriosito, chiese consiglio ai suoi auguri. Questi, rimpiangendo i libri perduti, gli imposero di acquistare i tre testi superstiti, che vennero quindi posti nel tempio di Giove Capitolino dove, ogni qualvolta Roma era in difficoltà, venivano consultati dai sommi sacerdoti.


PERSISTENZE SIBILLINE

La persistenza del ricordo delle Sibille nella cultura occidentale è testimoniata, oltre che dalla diffusione dell’aggettivo “sibillino” come sinonimo di oscuro, dalla presenza di vari dipinti dedicati alle profetesse di Apollo. La Sibilla Tiburtina, che annuncia ad Augusto la nascita di Cristo, è per esempio raffigurata su tele di Rogier van der Weyden e Jacopo Tintoretto, mentre l’incontro mitologico tra Enea e la Sibilla fa da soggetto a dipinti di Brueghel il Vecchio e William Turner. Senza dimenticare le cinque Sibille michelangiolesche affrescate sui capitelli della volta della Cappella Sistina. Se in ambito letterario la figura delle Sibille ha avuto – tranne che nell’opera poetica del greco Angelos Sikelianos – scarsa fortuna, in campo musicale il mito delle profetesse di Apollo ha invece ispirato molti grandi compositori, tra cui Orlando di Lasso, Mozart e Carl Orff.