domenica 30 settembre 2012

ADE (PLUTONE)



La sua casa era l’Oltretomba, su cui regnava come un despota terrorizzando i morti con la sua oscura presenza. Ma la fama sinistra di Ade non lasciava tranquilli neppure i viventi, che per timore di evocarlo si astenevano persino di pronunciare il nome.
Tenebroso e maligno, Ade era ritenuto incapace di provare sentimenti di pietà o amore. Eppure proprio per amore aveva compiuto la sua impresa più celebre, rapendo la giovane Persefone per trasformarla nella sua sposa part-time.
In origine aveva sembianze animalesche, ma poi cominciò a essere raffigurato come un uomo, anzi come un sovrano, maestoso, misterioso, inafferrabile. Conosciuto anche con l’epiteto di Plutone, “il ricco”, era come tutti gli olimpi una divinità ambivalente: legata alla morte ma anche alla fertilità della terra e alle ricchezze del sottosuolo di cui, in quanto signore degli inferi, era padrone.

GENEALOGIA DI ADE

Nato dal matrimonio tra Crono e Rea, Ade (Plutone per i Romani) apparteneva al clan dominante dell’Olimpo, quello che, al termine della secolare guerra contro i Titani, si era impossessato del potere raccogliendosi attorno alla figura regale di Zeus. Di questo agguerritissimo gruppo di fratelli, che includeva anche le dee Demetra, Estia ed Era, Ade rappresentava senz’altro il personaggio più inafferrabile e tenebroso: per questo, quando dopo la Titanomachia si trovò a dover distribuire il comando dell’Universo tra i suoi familiari, Zeus non ebbe dubbi nell’assegnare ad Ade l’oscuro regno degli Inferi, tenendo per sé il dominio del cielo e attribuendo a Poseidone quello dei mari.
Geloso dei suoi possedimenti e delle sue prerogative, Ade trascorreva gran parte del tempo nella sua reggia sotterranea, condividendo gli oneri del potere con la moglie Persefone, una sua nipote, nata da una fugace relazione tra Demetra e Zeus. L’unione tra i due sovrani degli Inferi era ritenuta infeconda, anche se una tradizione assai dubbia faceva discendere da Ade e Persefone le Erinni, atroci dee della vendetta.

UN RE SENZA PIETÀ

Il timore che Ade suscitava nei Greci era inversamente proporzionale al numero di leggende che gli erano dedicate. Su di lui, infatti, il mito si dimostrava alquanto vago. Di sicuro si sapeva che era un sovrano spietato, insensibile alle richieste dei suoi sudditi di poter tornare sulla Terra, e che, nell’esercizio delle sue funzioni, era affiancato da un gruppo di mostruosi servitori – tra cui Cerbero e Caronte – che eseguivano con brutalità gli ordini da lui impartiti.
Il dio dei morti, a quanto si diceva, era poco interessato alle faccende terrene, e gli stessi litigi e giochi di potere dei suoi fratelli sull’Olimpo lo lasciavano indifferente. Raramente si allontanava dal suo regno e, se proprio vi era costretto, vi faceva ritorno il più in fretta possibile. Non aveva possedimenti sulla Terra, tranne, secondo alcuni, una mandria di bestiame sull’isola Erizia. In compenso il suo status di sovrano del sottosuolo gli assicurava il possesso di tutte le gemme preziose e delle ricche miniere nascoste sotto la crosta terrestre.
La sua vita sentimentale, come si addice a un sovrano dei morti, era piuttosto morigerata. A parte un paio di abortite avventure extraconiugali, egli non aveva avuto altri amori che la moglie Persefone, rapita in Sicilia quando era poco più di una bambina, e poi costretta con l’inganno a restare negli Inferi. I due vivevano insieme sei mesi all’anno, durante i quali Persefone adempiva con efficienza ai suoi doveri di regina dei morti. Nel resto dell’anno, invece, Persefone (su intercessione di Zeus) tornava tra i viventi, e la sua ricomparsa sulla Terra veniva festeggiata dalla madre Demetra, dea dell’agricoltura, propiziando la primavera.
Nel mondo greco il culto di Ade era, al di fuori dei culti misterici, relativamente marginale. Sull'isola di Samotracia, nell’Egeo, sorgeva per esempio un grande tempio dove una divinità identificata con Ade (Axiokersos) veniva venerata insieme ad altri dèi. Al signore dei morti era inoltre dedicato, secondo il geografo Pausania, un santuario ai piedi del monte Mente, in Elide.

IL RIFIUTO DI ZEUS

Secondo alcune leggende, Ade, prima di rapire Persefone, ne aveva chiesto la mano al padre Zeus, il quale però gliela negò, non volendo apparire agli occhi dell’ex amante Demetra come il responsabile dell’infelicità della figlia.


TRADIMENTI MANCATI

Malgrado l’amore per Persefone, Ade tentò per due volte di tradirla: la prima con Minta, una ninfa trasformata da Persefone nell’omonima erba aromatica; la seconda con una figlia di Oceano, Leuce, che il dio avrebbe violentata se Persefone, per salvarla, non l’avesse mutata in un pioppo bianco.

L’ELMO MIRACOLOSO

Ade partecipò alla lotta contro i Titani, e i Ciclopi gli fornirono un elmo che, indossato, lo rendeva invisibile. Grazie a questo miracoloso manufatto, portato in seguito anche da Perseo e Atena, il dio degli Inferi poté introdursi senza essere visto nella reggia di Crono e rubargli le armi.

FERITO DA ERACLE

A parte il rapimento di Persefone, Ade compare solo in un unico altro grande mito. Lo narra Omero nell’Iliade, dove si racconta che il dio dei morti, quando Eracle scese negli Inferi per catturare Cerbero, tentò di bloccarlo alle porte del proprio regno. Ma l’eroe greco lo trafisse a una spalla con una freccia e Ade, dolorante, dovette essere portato in tutta fretta sull’Olimpo, dove fu rimesso in piedi da un unguento miracoloso di Peana, il dio guaritore. Secondo una diversa versione dello stesso mito, Ade, invece, sarebbe stato addirittura ucciso da Eracle, che lo schiacciò sotto un grosso masso.

LA STREGA E LA REGINA

Quando giungevano nell’Oltretomba, le anime dei morti trovavano ad attenderle, oltre ai demoni infernali, anche due dee dalla fama tutt’altro che rassicurante. La più temuta era ovviamente Persefone, nota anche come Core in Attica e Proserpina a Roma: costretta suo malgrado a passare metà dell’anno sottoterra, la dea sfogava il suo rancore accanendosi sulle anime dei defunti, verso le quali, spesso, si comportava ancora più crudelmente di Ade. Su di lei, come sul marito, le leggende erano piuttosto scarse: si diceva comunque che fosse stata al fianco del marito quando Orfeo si presentò da Ade per chiedergli indietro la moglie Euridice. Ed era nota la sua infelice passione per il bellissimo Adone, che Afrodite le aveva affidato ancora neonato e per il quale, poi, aveva perso la testa.
Al suo fianco si incontrava spesso un’altra divinità femminile, inquietante e misteriosa già nell’aspetto. Si chiamava Ecate e, come lasciava intendere il suo nomignolo – la dea triplice – era dotata di tre corpi e tre teste (talvolta di animale).
Amica di Persefone sin dall’epoca del suo rapimento – era stata lei a confermare a Demetra il ratto della figlia – Ecate era venerata dai Greci come la dea degli incantesimi e della stregoneria. Si diceva che durante la notte spedisse sulla Terra ogni sorta di demoni, che il suo arrivo fosse annunciato dal mugolio dei cani e che amasse soggiornare in coincidenza dei crocevia, controllando con le sue tre teste ogni direzione. Era anche ritenuta una dea psicopompa, che viaggiava liberamente tra il mondo degli uomini e quello dei morti guidando le anime verso il loro destino.
Ad Atene, alla fine di ogni mese, era abitudine lasciarle dei piatti di cibo agli incroci delle strade: il contenuto veniva poi consumato dai poveri della città.


TROPPO CUPO PER ESSERE AMATO

Ade, poi divenuto Plutone presso i Romani, era un dio troppo estraneo all’escatologia cristiana per interessare gli autori medievali, e troppo cupo per affascinare gli Umanisti. La sua fortuna nell’arte inizia dunque solo a metà Cinquecento, anche se già in precedenza lo si trova citato nell’Inferno di Dante (dove tuttavia pare indistinguibile dal dio della ricchezza Pluto) e nell’Orfeo di Angelo Poliziano. A partire dal tardo Rinascimento, il ratto di Proserpina diventa invece un topos  ricorrente in tutte le forme d’arte: in pittura lo si ritrova, per esempio, nei dipinti di Luca Giordano, Pieter Paul Rubens e William Turner, in scultura nel celebre gruppo marmoreo del Bernini, in musica nell’opera di Igor Stravinskij, in letteratura in un dramma di Goethe. Nella cultura contemporanea Ade è un personaggio molto amato dagli autori fantasy e di fumetti.

giovedì 13 settembre 2012

LADONE



In quasi tutte  le mitologie antiche c’è la figura di un drago che custodisce immensi tesori. Nel mondo greco, questo drago è Ladone, il guardiano dell’albero dai pomi d’oro nascosto nel giardino  delle ninfe Esperidi. Un mostro per tanti aspetti “minore”, ma in ogni caso legato a uno dei cicli-chiave della mitologia greca: quello che narra le dodici fatiche del grande Eracle.
Per alcuni autori era un serpente a cento teste, per altri un drago; altri ancora lo descrivevano come un rettile malefico e astuto. Su un solo punto tutti erano d’accordo: Ladone era una creatura maligna e insidiosa, dotata di poteri magici ricevuti in dono da Era, la sua protettrice.

GENEALOGIA DI LADONE

Esistono due diverse tradizioni genealogiche riguardo alla nascita di Ladone. La prima individua i genitori del drago nei due mostri da cui discendono tutti gli esseri più orribili del mito greco: il terrificante Tifone, un gigante alato con cento teste e due spire di serpenti al posto dei piedi, e la donna-vipera Echidna, con un busto da donna innestato su una coda da rettile. Dall’unione di questi due esseri immondi ebbe origine Ladone, che poi fu adottato da Era, la moglie di Zeus, e trasformato nel custode dei più preziosi frutti del mito greco. Contrapposta a questa mappa genealogica ce n’era una seconda che, curiosamente, faceva discendere Ladone dal mare. Secondo questa versione minore del mito, il drago delle Esperidi sarebbe infatti figlio di Forco (o Forcide) e Ceto, una coppia di amanti-fratelli collocati dalla tradizione greca tra le divinità marine primordiali. Nati dalle nozze tra Ponto e Gaia – il Mare e la Terra – Forco e Ceto erano ritenuti i genitori, oltre che di Ladone, anche di molti altri mostri mitologici, tra cui Echidna, le Gorgoni e le bellissime ma insidiose ninfe Esperidi.

I POMI PROIBITI

La figura di Ladone compare, per di più marginalmente, solo nell’undicesima fatica di Eracle. L’eroe, chiamato a espiare attraverso queste dodici imprese l’omicidio della moglie Megara, uccisa in un raptus di follia, era appena rientrato a Micene dopo la cattura dei buoi di Gerone quando Euristeo, re della città, gli ordinò di portargli i pomi d’oro nascosti nel Giardino delle Esperidi. Di questo luogo incantato, sorvegliato da un drago che non dormiva mai, nessuno conosceva l’esatta collocazione. Trovarlo fu perciò difficile e faticoso, e forse Eracle non ci sarebbe riuscito senza l’aiuto del dio marino Nereo il quale, pur tentando di sfuggirgli, gli rivelò infine la regione – forse a ovest della Libia – dove si trovava il giardino.
Iniziò così per Eracle un interminabile viaggio, costellato da molte e mirabolanti imprese: l’eroe liberò tra l’altro le coste libiche dal feroce gigante Anteo e pose termine al tormento di Prometeo, incatenato a una roccia dove, per volere di Zeus, un’aquila gli divorava quotidianamente il fegato. Proprio Prometeo, grato a Eracle per averlo liberato, consigliò all’eroe – se voleva davvero i pomi – di non recarsi personalmente nel Giardino delle Esperidi, ma di affidare il compito a suo fratello, il Titano Atlante. Eracle accolse il suggerimento e, recatosi dal gigante, gli offrì, in cambio dell’aiuto richiesto, di reggere fino al suo ritorno la volta celeste che Atlante, per ordine di Zeus, doveva portare giorno e notte sulle spalle. Atlante accettò e, come previsto da Prometeo, non ebbe difficoltà a impossessarsi dei pomi; ma, una volta tornato, si rifiutò di consegnarli a Eracle, perché non voleva riprendere su di sé il peso del cielo. Così Eracle, per non restare intrappolato in quella scomoda situazione, dovette ingannare Atlante, convincendolo con una scusa a rimettersi per qualche istante il cielo sulle spalle, salvo poi fuggire con i pomi d’oro che il Titano, ingenuamente, aveva posato per terra.
Una diversa versione del mito sostiene invece che Eracle si recò personalmente nel Giardino delle Esperidi, uccise o addormentò Ladone e si impadronì dei pomi, senza alcun aiuto da parte di Atlante.

IL FIGLIO DI GAIA, LA MADRE TERRA

Una delle imprese più celebri compiute da Eracle durante l’undicesima fatica fu l’uccisione del crudele Anteo, un gigante libico dai poteri straordinari. Nato dall’unione tra Gaia e Poseidone, Anteo era pressoché  invincibile finché restava in contatto con sua madre, la Terra; ma Eracle riuscì a sollevarlo per il tronco e, tenendolo sollevato, lo strinse fino a soffocarlo.


VITTIMA SACRIFICALE

Durante la marcia di avvicinamento al Giardino delle Esperidi, Eracle passò anche dall’Egitto, dove il crudele re Busiride aveva l’abitudine di sacrificare a Zeus gli stranieri che passavano dal suo paese. Anche Eracle rischiò di restare vittima della barbara usanza, ma, condotto all’altare con le mani e i piedi legati, si liberò dai lacci e uccise Busiride.

IL DONO DI ATENA

Una volta ottenuti i pomi d’oro, Euristeo, cugino senza qualità di Eracle, non mostrò alcun interesse per i preziosi frutti, e li restituì all’eroe greco.
Eracle poté così donarli ad Atena, che subito li riportò nel Giardino delle Esperidi, dove, secondo la legge divina, erano destinati a restare per l’eternità.

LA COSTELLAZIONE DEL SERPENTE

Secondo una leggenda ellenistica, Era, inconsolabile per la morte di Ladone, tentò di perpetuarne il ricordo innalzandolo in cielo sotto forma di astro. Nacque così la costellazione del Serpente, ben visibile nelle notti estive dalle coste greche. Dal canto loro le Esperidi, disperate per non aver saputo proteggere i frutti che avevano ricevuto in custodia, si trasformarono in alberi (un pioppo, un olmo e un salice), sotto le cui fronde si riposò Giasone quando, nel corso della sua ricerca del Vello d’Oro, approdò con gli Argonauti nel mitico giardino.

L’ORA DEL DRAGO

Terrificante, insonne, gigantesco: Ladone non è che una delle infinite forme che il drago assume nella fantasia dei Greci. Simile a lui, quasi un fratello-gemello, c’è per esempio il drago del Vello d’Oro, un mostro senza nome chiamato a sorvegliare la preziosa pelle dell’ariete magico donato da Ermes a Nefele, moglie di Atamante. Un ostacolo apparentemente invalicabile per qualsiasi essere umano, ma non per Giasone, che, secondo alcuni, per recuperare il Vello d’Oro dovette calarsi nello stomaco del mostro, proprio come il biblico Giona nel ventre della balena.
Un custode di tesori, sia pure di diversa natura, è anche Pitone, il rettile che Gaia, la Madre Terra, nella notte dei tempi pose a guardia del suo oracolo a Delfi. Apollo lo sconfisse in una mitica battaglia e in tal modo strappò a Gaia il controllo dell’oracolo, che divenne così la voce della sua volontà sulla Terra.
Altri draghi greci paiono invece, più che custodi di tesori intangibili, espressioni di una natura spaventosa e matrigna. Così l’Idra di Lerna, uccisa da Eracle con il sostegno del nipote Iolao, sembra quadi un’emanazione venefica della palude maleodorante in cui abita. E il mostro marino decapitato da Perseo per liberare Andromeda assomiglia, più che a un drago, a uno dei giganteschi pesci (forse balene) che, nell’immaginario degli antichi, dovevano popolare i fondali marini. Tutti draghi, quelli del mito greco, che comunque, pur nelle loro differenze, hanno un aspetto in comune: la loro esistenza pare avere come unico scopo quello di far risaltare la grandezza dell’eroe che, vincendoli, viene elevato al rango di “salvatore” del mondo.
Un aspetto che accomuna i mostri greci e quelli di altre mitologie, orientali o nordiche che siano: dal drago marino Tiamat, intrappolato in una rete e poi ucciso dal babilonese Marduk, al velenoso Jormungandr, sconfitto, ma al prezzo della vita, dal dio norreno del tuono Thor.


SUGGESTIONI INDIRETTE

Le tracce lasciate da Ladone nell’arte postclassica sono interamente legate al successo iconografico del mito di Eracle. Succede così che in opere dedicate all’eroe trovi spazio anche il drago, spesso raffigurato come un cimelio di caccia sotto i piedi del suo uccisore. Altre volte, invece, il soggetto del dipinto è la lotta tra l’eroe e il mostro – come in un olio su tela di Juan Bautista Martinez del Mazo – oppure il contesto mitologico in cui tale scontro è avvenuto. Significativo in tal senso un dipinto di Frederic Leighton, dove il Giardino delle Esperidi diventa una sorta di Paradiso Terrestre con Ladone nella parte del serpente tentatore. È indubbio, comunque, che l’influenza più duratura della figura di Ladone sia indiretta, e vada rintracciata nelle centinaia di quadri su San Giorgio e il drago che, in un modo o nell’altro, risentono delle suggestioni del mito.

domenica 12 agosto 2012

ERA (GIUNONE)



Moglie, sorella, amante di Zeus, Era (la Giunone romana) rappresentava agli occhi dei Greci l’altra faccia del potere divino, quella femminile. Un volto non di rado minaccioso nei confronti dei mortali, verso i quali, per gelosia, rabbia oppure vendetta, poteva mostrarsi spietata: ma anche un volto in cui ogni uomo, e soprattutto ogni donna, poteva trovare conforto, perché tra i poteri attribuiti a Era vi era quello di proteggere i matrimoni e le partorienti.
Venerata in tutta la Grecia, Era aveva il piglio della vera regina: caparbia, autoritaria, anche spietata se serviva. Pronta a scontrarsi con Zeus pur di difendere i propri diritti, e a tramare contro di lui se temeva di essere messa in disparte.. una figura di rilievo nel panorama dell’Olimpo greco, poiché introduceva in un universo maschilista il controcanto di una forte personalità femminile.

GENEALOGIA DI ERA

Figlia del titano Crono e della titanide Rea, Era, come tutti i suoi fratelli e le sue sorelle fuorché Zeus, finì inghiottita dal padre, che la rigettò alla vita solo grazie alla temerarietà dello stesso Zeus. In seguito, durante la lotta tra Olimpi e Titani, fu allevata alle estremità del mondo da Oceano e Priamo, i suoi genitori adottivi, ai quali rimase molto legata. Non si sa quando nacque il suo amore per Zeus: secondo alcuni, i due fratelli si erano uniti segretamente già all’epoca in cui Crono regnava ancora sui Titani. In ogni caso, Zeus ed Era si sposarono dopo il divorzio del re degli dèi da Temi, la sua seconda moglie, ed ebbero insieme quattro figli: Efesto, Ares, la dea del parto Ilizia (di qui il ruolo protettivo di Era sulle donne gravide) ed Ebe, personificazione della giovinezza. Fonti meno canoniche, tuttavia, sostengono che due di questi figli, Efesto ed Ares, furono generati dalla regina dell’Olimpo da sola, per vendicarsi di Zeus che, senza ricorrere all’elemento femminile, aveva dato alla luce Atena.

IROSA E SUSCETTIBILE

Pochi argomenti hanno stimolato la fantasia degli autori greci quanto la suscettibilità di Era. Si può dire, anzi, che l’intero corpus di leggende dedicate alla dea non sia altro che una variazione sul tema della sua irascibilità, spesso all’origine di terrificanti vendette.
A scatenare la furia di Era è, in particolare, l’infedeltà di Zeus, un marito tanto prepotente quanto inaffidabile, perennemente alla ricerca di ninfe o donne da sedurre e ingravidare. Un’infedeltà quasi patologica, quella del re degli dèi, alla quale Era reagisce in due modi: o scagliandosi contro il marito in furiose liti coniugali o, più spesso, rivalendosi sui figli nati dalle sue avventure. Così l’incolpevole Eracle è costretto a patire ogni genere di tormenti – tra cui le dodici fatiche – solo per il fatto di essere figlio di Alcmena, amata da Zeus; e Dioniso, nato dalla passione del re dell’Olimpo per Semele, sconta l’identità del padre sprofondando in una spirale di follia da cui stenterà a liberarsi.
Altre volte Era si vendica direttamente sulle amanti del marito: Latona, per esempio, incinta di Apollo e Artemide, è costretta a vagare per mesi alla ricerca di un luogo dove partorire perché Era ha proibito a tutte le città greche di darle asilo. E sorte ancora peggiore tocca alla povera Callisto, una delle ninfe devote ad Artemide, per conquistare la quale Zeus ha assunto sembianze femminili: non appena viene a sapere dell’ennesimo tradimento, Era, con una magia, la tramuta in orsa, e poi convince Artemide ad abbatterla con una freccia.
Fin qui si tratta di vendette “coniugali”, legate alla cronica incapacità di Zeus di restare fedele alla moglie. Ma ce ne sono altre del tutto gratuite, che scaturiscono solo dal pessimo carattere di Era. La più celebre è quella legata al “giudizio di Paride”, il concorso di bellezza nel quale il principe troiano fu chiamato a decidere chi, tra Afrodite, Era e Atena, fosse più desiderabile. La scelta cadde su Afrodite, e la decisione ebbe conseguenze fatali: Era, infatti, offesa, avversò Paride e i suoi concittadini per l'intera guerra di Troia, battendosi con ogni mezzo pur di provocarne la rovina.


LA SECONDA NASCITA

Solo dopo la sua morte, Eracle si riconciliò con Era. La pace fu sancita da una cerimonia nella quale l’eroe inscenò una seconda nascita, stavolta dal grembo di Era. La dea divenne così la madre immortale di Eracle e questi, ormai assurto al rango di divinità , si riappacificò con lei sposandone la figlia Ebe.

UN CULTO DIFFUSO

Il più celebre tempio di Era sorgeva ad Argo, nel Peloponneso, ma edifici analoghi si trovavano in tutta la Grecia e nelle colonie italiche. A Samo, ogni anno venivano celebrate feste in onore di Era con la commemorazione delle sue mitiche nozze con Zeus.

IL TORMENTO DELLA RUOTA

La bellezza di Era poteva rendere folli gli uomini. Così, Issione, il re dei Lapiti, tentò un giorno di violentare la dea, che si salvò solo perché Zeus, intuito il pericolo, sostituì alla moglie una nube con le sue stesse forme. In seguito il re degli dèi punì duramente Issione, legandolo mani e piedi a una ruota destinata a rotolare in eterno nel cielo.

IL PIACERE DEI SESSI

Tra le tante vittime di Era vi fu anche Tiresia, il celebre veggente. Si racconta infatti che un giorno la dea si fosse messa a discutere con Zeus su chi, tra l’uomo e la donna, provasse maggior piacere in amore. Era sosteneva che fosse l’uomo, Zeus la donna. Ormai ai ferri corti, i due decisero di consultarsi con Tiresia, l’unico che, nella sua esistenza, avesse fatto esperienza di entrambe le condizioni. E poiché l’indovino aveva dato ragione a Zeus – dicendo che, se il piacere dell’uomo è pari a uno, quello della donna arriva a nove – Era, in uno dei suoi soliti e incontrollabili scatti d’ira, lo accecò.

NOZZE DIVINE

Il matrimonio tra Zeus ed Era è quasi un unicum nell’ambito del pantheon greco. In effetti, se si escludono i due sovrani dell’Olimpo e divinità arcaiche come Urano e Gaia o Crono e Rea, sono ben pochi gli dèi maggiori che vantano tra le loro esperienze il matrimonio. Le dee, in particolare, appaiono decisamente restie alle nozze: probabilmente timorose di perdere la loro indipendenza, tutte scelgono la castità (come Atena, Artemide ed Estia) o relazioni fugaci ancorché feconde come Demetra.
Fa eccezione, forse per il suo ruolo di dea dell’amore, Afrodite, il cui matrimonio con Efesto è però frutto degli intrighi di Zeus e si conclude con un doloroso divorzio.
Quanto agli dèi, a parte Zeus e, appunto, Efesto, gli unici a scegliere di sposarsi sono Poseidone e Ade: il primo con la nereide Anfitrite, che diventa così regina dei mari; l’altro con Persefone, figlia di Demetra, strappata adolescente alla madre e costretta a condividere con il dio, per sei mesi all’anno, l’ingrato compito di signora dei morti.
Meno recalcitranti nei confronti delle unioni stabili appaiono invece gli dèi “minori”: Dioniso, per esempio, quando si innamora di Arianna, non esita a portarla con sé sull’Olimpo e a sposarla davanti a Zeus, donandole pure, come regalo di nozze, uno splendido diadema d’oro. E analoga sollecitudine mostra Armonia (figlia di Ares e Afrodite) nei confronti di Cadmo, al quale si unisce in una cerimonia come la più splendida mai organizzata da una divinità.
Infine ci sono i matrimoni delle ninfe, abituali compagne di vita di eroi e re leggendari: il mito greco ne celebra parecchi, ma nessuno supera per fasto e fama quello tra Peleo e Teti, spesso citato dai poeti antichi anche perché, indirettamente, fu la causa della guerra di Troia.


COMPRIMARIA MA NON TROPPO

Meno popolare rispetto a dee come Afrodite e Atena, Era ha dovuto accontentarsi, nell’arte postclassica, di ruoli da comprimaria. La sue apparizioni più rilevanti avvengono, in campo letterario, nei poemi mitologici Lo scherno degli dèi di Francesco Bracciolini e la Feroniade di Vincenzo Monti. In campo figurativo, Era si trova spesso rappresentata nell’ambito del giudizio di Paride o al fianco di Zeus (affreschi di Correggio e Annibale Caracci). In quanto protettrice dei matrimoni, compare in alcuni dipinti del ciclo rubensiano sulle nozze di Maria de Medici, mentre Veronese e Tintoretto la dipingono sui soffitti di Palazzo Ducale mentre colma di doni una donna che personifica Venezia. Poco significativa la presenza di Era nell’arte contemporanea, dove quasi solo il drammaturgo Sean O’Casey allude a lei nel suo lavoro più celebre, Giunone e il pavone.

sabato 4 agosto 2012

ETTORE



È il più nobile tra i protagonisti dell’Iliade, l’unico in cui l’eroismo non scaturisce da una natura semidivina, ma da un’umanità che sfida i limiti in cui si trova imprigionata. Temerario e sensibile, Ettore può fuggire spaventato al cospetto di Achille, ma anche ricacciare la paura e sfidare il rivale in un duello dall’esito prevedibile. Perché in lui il coraggio non è mai disgiunto dalla consapevolezza, dalla coscienza che, di fronte al volere avverso degli dèi, all’uomo non resta altra scelta che morire gloriosamente.
Ettore è il più grande eroe troiano, l’unico che incuta timore anche ad Achille. Adorato dal suo popolo, sa di essere un modello per tutti i suoi sudditi, e per questo si batte al loro fianco pur biasimando le ragioni della guerra. La sua nobiltà d’animo traspare anche nei rapporti privati: nessun altro eroe omerico, infatti, ama quanto lui la moglie, Andromaca, alla quale è legato da un tenerissimo affetto.

GENEALOGIA DI ETTORE

Ettore è uno dei diciannove figli che il re di Troia, Priamo, figlio di Laomedonte e della bella Strimo, ebbe dalla moglie Ecuba. Di quella abbondantissima prole facevano parte altre figure destinate a un posto di primo piano nella mitologia greca: dalla profetessa di sventure Cassandra al traditore Eleno; dal vile Paride all’affascinante Polissena, per la quale, secondo alcune leggende, perse la testa lo stesso Achille. Nessuna di queste figure mitologiche, però, è riuscita a uguagliare in popolarità la figura di Ettore, che grazie all’Iliade divenne presto il prototipo e l’incarnazione del perfetto eroe greco: una combinazione così straordinaria di forza, coraggio, virtù, onestà e pietas che alcuni autori, dissociandosi da Omero, vollero individuare in Apollo il vero padre di Ettore, ritenendo che nessun essere soltanto umano potesse sommare in sé tante qualità quante l’Iliade ne attribuiva al principe troiano.

L’ULTIMO DUELLO

Il mito di Ettore è totalmente frutto della fantasia di Omero. L’eroe troiano, infatti,  non compare (o quasi) negli altri cicli epici e nelle tragedie greche. Tutto ciò che sappiamo di lui, perciò, proviene dall’Iliade, che racconta le sue gesta nell’ultimo anno della guerra di Troia.
Nel poema omerico, l’atteggiamento di Ettore appare inizialmente prudente e quasi pavido: per i primi nove anni del conflitto, infatti, egli ha evitato accuratamente lo scontro in campo aperto con i Greci, e l’unica volta in cui si è trovato al cospetto di Achille, ha ripiegato e si è rifugiato dentro le mura di Troia. Tutto cambia quando lo stesso Achille, in lite con il re acheo Agamennone, decide di ritirarsi dai combattimenti. Allora Ettore, pur tentando di raggiungere un accordo con il nemico, prende il comando delle operazioni, e nel volgere di poco tempo prima fa grande strage di soldati greci, poi sfida Aiace in un duello che si risolve senza vincitori. Ettore anima quindi l’assalto troiano contro le navi achee, e solo l’intervento degli dèi gli impedisce di uccidere celebri eroi come Nestore o Diomede. I Greci, comunque, sono in difficoltà e quando Patroclo, con l’assenso di Achille, decide di accorrere in loro aiuto alla guida dei Mirmidoni, Ettore lo uccide e poi lo spoglia delle armi, malgrado il tentativo greco di impedirlo.
È questo l’ultimo atto eroico di Ettore: poco dopo, infatti, Achille, furente per l’uccisione dell’amico Patroclo, riprende le armi per vendicarlo, e il suo ritorno trascina i Greci alla riscossa. I due rivali, infine, si ritrovano faccia a faccia in un duello da cui dipendono le sorti della guerra: assalito dalla paura, dapprima Ettore fugge, tallonato da Achille che per tre volte lo rincorre attorno alla città. Poi, però, l’eroe troiano, tradito da Atena (che assume le sembianze del fratello Deifobo promettendogli aiuto) accetta lo scontro. Il duello è feroce, ma alla fine Achille ha la meglio. Invano Ettore, agonizzante, supplica il rivale di restituire il suo corpo al padre Priamo. Achille rifiuta, e allora Ettore, con la preveggenza tipica dei morenti, gli profetizza prima di spirare la fine imminente.


ONORI RECIPROCI

Nel sesto libro dell’Iliade, Aiace viene sorteggiato per sfidare Ettore in duello. Lo scontro di protrae fino al tramonto, quando i due rivali si scambiano le armi in segno di reciproco rispetto. In seguito Ettore e Aiace si affronteranno di nuovo nella mischia attorno al corpo di Patroclo.

IL VERO UCCISORE

Anche se a finirlo è Ettore, Patroclo muore in realtà per mano del dio Apollo, che lo tramortisce con un colpo alle spalle durante un assalto e poi lo disarma, lasciandolo in balia dei nemici.

LO SCEMPIO DEL CADAVERE

Dopo avere ucciso Ettore, Achille si accanisce sul suo cadavere, trascinandolo attorno alle mura di Troia legato al suo carro da guerra. Poi lo abbandona nel campo greco, finché, su ordine di Zeus, non accetta di restituirlo a Priamo che lo seppellirà  con grandi onori.

LA LOGICA DELL’AMORE

Nell’Iliade, poema maschile per definizione, sorprende la figura di Andromaca, moglie tebana di Ettore e madre del suo unico figlio, Astianatte. Un personaggio dai tratti patetici, orfana di tutti i suoi familiari – morti in una guerra precedente – e ora prigioniera di un conflitto che mette a rischio la sua stessa libertà. L’ultimo incontro della donna con Ettore, percorso dal presagio della fine dell’eroe, è uno dei momenti più toccanti del poema: un confronto tra la logica dell’amore, impersonata da Andromaca, e quella del dovere, a cui Ettore sceglie a malincuore di obbedire.

L’IDEALE EROICO

Nel mito greco, l’eroe è descritto come un semidio che possiede tutte le possibili qualità umane: il valore, l’astuzia, il vigore, la carità, la saggezza.  In pratica, egli incarna al massimo grado l’ideale etico ed estetico degli antichi Greci, per  i quali un uomo poteva dirsi perfetto solo se era al tempo stesso kalòs kai agathòs, bello e buono, dotato di prestanza fisica e virtù morale.
Un connubio di qualità che si ritrova in tutti i più grandi guerrieri dell’Iliade, siano essi di origine semidivina, come Achille o Memnone, oppure di natura umana, come Menelao e lo stesso Ettore. Ma la medesima compresenza di doti appartiene anche agli eroi preomerici, primo fra tutti Eracle, nel quale la forza fisica non è (quasi) mai disgiunta da un indefettibile senso di giustizia.
Bellezza e virtù, dunque, ma anche valore. Affinché un guerriero diventi un vero eroe è necessario infatti che disponga anche dell’aretè, la capacità di assolvere fino in fondo il proprio compito. Una speciale forza d’animo che gli consente, anche quando sa, come Ettore, di essere destinato alla morte, di scendere comunque sul campo di battaglia, con la volontà e il desiderio di ottenere onore e fama. Perché di questo, in fondo, vivono gli eroi greci: del desiderio di conquistare la gloria, garantendosi, attraverso l’eccezionalità delle proprie gesta, il ricordo dei posteri e il culto, dopo la morte, dei propri seguaci. Questo culto, in genere, non valica i confini della regione d’origine dell’eroe, poiché solo in quell’ambito si ritiene che egli possa esercitare la propria azione protettiva. Talvolta, però, trascende l’ambito locale, diventando un fattore di aggregazione tra le varie città elleniche. È questo il caso di Eracle, i cui templi sorgevano ovunque in Grecia, oppure dell’ateniese Teseo, del quale è attestato il culto, oltre che in Attica, anche i Tessaglia e in Beozia.

IL CAVALIERE PERFETTO

Il primo autore postomerico che si ricordò di Ettore fu Virgilio, che nell’Eneide lo fa comparire in sogno a Enea. Poi fu la volta di Seneca, che inserì la figura dell’eroe nelle Troiane. Nel medioevo, Ettore divenne il modello del cavaliere perfetto e venne inserito nella lista dei “Nove Prodi”, ai quali ogni gentiluomo era chiamato a ispirarsi. Anche Dante fu colpito dalla sua figura, che collocò nel Limbo, destinato agli “spiriti  magni”. In seguito, l’eroe troiano ricompare nel finale dei Sepolcri di Ugo Foscolo e, soprattutto, nel dramma La guerra di Troia non si farà, di Jean Giraudoux, dove Ettore è presentato come un convinto “pacifista”. Quanto alle arti figurative, il mito di Ettore ha fatto da motivo ispiratore a dipinti di Rubens e Giorgio De Chirico e a sculture di Canova e Thorvaldsen, mentre la musica ha omaggiato l’eroe con lavori di Franz Schubert ed Hector Berlioz.

martedì 31 luglio 2012

DAFNE


Il suo nome, in greco antico, significava “alloro”, e proprio in una pianta di alloro fu trasformata dalla madre Gaia quando Apollo, invaghitosi di lei, tentò di violentarla. Una metamorfosi che, pur imprigionando la ninfa Dafne entro una corteccia, per paradosso le restituiva la libertà di non soggiacere alla passione d’amore. Una servitù ben peggiore per chi, come lei, nella logica del mito impersonava la freschezza, la grazia e l’inafferrabilità delle forze primigenie della natura.
Stazio, Bernini, Monteverdi, D’Annunzio…appartengono a tutte le epoche, e a ogni tipo d’arte, gli autori che hanno amato il mito di Dafne, un racconto ellenistico reso celebre da Ovidio con le sue Metamorfosi, ma poi penetrato così profondamente nella cultura occidentale da aver fatto di Dafne una sorta di archetipo femminile: la figura dell’eroina capace, pur nella disgrazia, di difendere la propria indipendenza e libertà di scelta.

GENEALOGIA DI DAFNE

Come tutte le Ninfe, Dafne è una divinità femminile che nasce dall’unione tra due forze strettamente legate al mondo vegetale: la Madre Terra Gaia, che scaturì direttamente dal Caos e creò, da sola o con l’aiuto del marito Urano, tutti gli elementi primordiali del cosmo, e una divinità fluviale di incerta identità. Alcuni la individuano in Ladone, dio dell’omonimo fiume in Arcadia e padre anche di una seconda ninfa, Metope, generata con Stinfalide. Per altri, invece, il padre di Dafne avrebbe il volto di Peneo, divinità tessala che origino il corso d’acqua conosciuto con il suo stesso nome. Chiunque sia il padre di Dafne, è certo comunque che il mito gli assegna, nella storia della figlia, un ruolo di secondo piano. Ben più rilevante la parte interpretata da Artemide, la dea dei boschi, che per Dafne fu una sorta di seconda madre: la accolse infatti nel suo corteo regale, legandola a sé con il voto di castità richiesto a tutte le sue ancelle. Fu per tenere fede alla promessa fatta ad Artemide che Dafne respinse il corteggiamento di Apollo, reso cieco di passione da una freccia dispettosa di Eros. E sempre per fedeltà alla dea, di cui secondo alcuni autori era la ninfa preferita, Dafne preferì trasformarsi in una forma vegetale piuttosto che permettere ad Apollo di violarla.

STORIE DI NINFE

La versione ovidiana del mito di Dafne, sentimentale e drammatica al tempo stesso, sembra combinare due aspetti ricorrenti nei racconti di ninfe: da una parte l’ammiccamento erotico, legato alla natura stessa di queste divinità minori, giovani fanciulle che personificano la fecondità e la grazia del mondo vegetale, dall’altra la componente tragica, che invece sembra sottolineare la fragilità quasi umana delle ninfe, non a caso ritenute (salvo rarissime eccezioni) creature mortali. Questi due aspetti costituiscono l’ossatura della maggior parte delle leggende greche dedicate alle ninfe, e in particolare di due tra le più celebri: il mito della bella Eco, che per amore di Narciso si consumò al punto da ridursi alla sua sola voce, e quello della ninfa Callisto, posseduta con l’inganno da Zeus e, per questo, punita dalla spietata Artemide con un incantesimo che la trasformò in orsa.
Ci sono però anche miti in cui alle ninfe vengono attribuiti connotati materni, come tutti quelli dove fanno da nutrici a eroi o dèi (per esempio Dioniso). E altri ancora in cui, invece, assumono tratti quasi minacciosi, alla stregua di certe streghe del folclore nordico: è celebre, per esempio, l’episodio del giovane Ila, fanciullo bellissimo che un gruppo di ninfe acquatiche, innamorate, trascinarono con sé in una sorgente annegandolo.
Al di là di queste varianti più o meno horror dell’immaginario mitologico, le ninfe erano comunque generalmente percepite dai Greci come entità benevole, emanazioni della natura che popolavano l’ambiente vegetale sacralizzandolo. Forse per questo, ogni ambito del mondo naturale aveva le sue: così esistevano le ninfe del mare, quelle delle acque e delle grotte, delle montagne e dei boschi. C’erano persino le ninfe del cielo, che si chiamavano Pleiadi come la costellazione nota già ai tempi di Omero.

DRIADI E OREADI

Tra le ninfe terrestri, le più note erano le Driadi, che morivano quando seccava l’albero in cui abitavano, e le Oreadi, creature delle montagne e delle grotte.


SIGNORE DELLE ACQUE

Le ninfe del mare comprendevano le Oceanine, che vivevano sui fondali dell’Oceano, e le Nereidi, legate al Mar Mediterraneo. Le Naiadi, invece, erano le ninfe d’acqua dolce, creature dai poteri meravigliosi (tra cui quello di ispirare i poeti) che popolavano fonti, laghi, fiumi, ruscelli, cascate.

SETTE STELLE

Figlie di Atlante e di Pleione, le Pleiadi erano sette sorelle che facevano parte del corteo regale di Artemide. Un giorno che si trovavano in compagnia della madre, un terribile cacciatore, Orione, le vide e se ne innamorò. Per cinque anni le Pleiadi fuggirono il loro persecutore, finché, stremate, non implorarono gli dèi di salvarle. Zeus, allora, le trasformò in colombe, che volarono in cielo e divennero le sette stelle che formano l’omonima costellazione.

LA DEA DEL CASO

C’era una ninfa che non viveva sugli alberi né sulle montagne, e tantomeno nei fondali dei fiumi o dei mari. Era Tyche, la dea del Caso, una creatura inafferrabile da cui dipendevano le sorti dei singoli individui e degli Stati. Identificata dal poeta Esiodo con una delle Oceanine (ma Pindaro la considerava la più potente delle Parche), apparteneva a quel gruppo di forze primigenie generatesi prima della comparsa degli Olimpi, e poi sopravvissute in forma diversa all’ascesa di Zeus. Il suo ruolo, ancora marginale ai tempi di Omero (che nei suoi poemi non vi fa mai cenno), crebbe a partire dal IV secolo a.C., tanto che ai capricci di Tyche cominciarono ad essere attribuite le fortune e le rovine delle varie poleis. Non a caso, nelle opere d’epoca ellenistica, la dea viene raffigurata come una giovane donna che reca sul capo il polos, una corona turrita simboleggiante le mura cittadine.

CAMBI DI STATO

La trasformazione in alloro del corpo di Dafne è la metamorfosi per antonomasia del mito greco. Non è però l’unica né la più sorprendente. Assai comuni, nella poesia antica, sono per esempio le “mutazioni” degli dèi, che modificano temporaneamente il proprio aspetto per comunicare con gli uomini. Maestro di questi camaleontismi è Zeus, che nei suoi amori “umani” pare divertirsi ad assumere sembianze ogni volta diverse: di un toro per amare Europa, di un cigno per sedurre Leda, di un’aquila per rapire Ganimede. Ma non meno abili nell’arte della trasformazione si rivelano Poseidone, che si accoppia a Melanto in forma di delfino, e Afrodite, che inganna Psiche presentandosi a lei nei panni di una vecchia.
Accanto a queste metamorfosi temporanee, ci sono poi quelle definitive, che colpiscono generalmente gli esseri umani. A volerle sono di solito gli dèì, che le decidono per i motivi più svariati: per donare a giovani sfortunati un’immortalità postuma (come nel caso di Giacinto, trasformato post mortem nel fiore corrispondente); per punire gli uomini delle loro colpe (come nel mito di Licaone, mutato in lupo per aver offerto a Zeus un piatto di carne umana); per sottrarre gli esseri umani a un destino crudele. A quest’ultimo filone appartengono, per esempio, la metamorfosi di Dafne e quella delle Eliadi, figlie del dio del sole Elio: inconsolabili per la morte del fratello Fetonte, le due sorelle piansero così a lungo la sua scomparsa che il dio fluviale Eridano, commosso, trasformò le fanciulle in pioppi e le loro lacrime in ambra. Tutte queste metamorfosi, nei miti greci, trasmettono l’idea di un universo fluido, dove ogni cosa può mutarsi nelle altre e non esiste linea di demarcazione netta tra piante e animali, uomini e cose. Un mondo percorso da segreti legami, sottili fili rossi che collegano tra loro ambiti naturali diversi favorendo continui trapassi tra regno umano, animale e vegetale.


UN SOGGETTO PER TUTTE LE ARTI

Un episodio visivamente suggestivo come la metamorfosi di Dafne non poteva sfuggire all’attenzione degli artisti postclassici. Così, a partire dal ‘500, furono molti i pittori e gli scultori che provarono a raffigurare questo soggetto: tra i più famosi, Jacopo Tintoretto, Gian Lorenzo Bernini, Nicolas Poussin, Giambattista Tiepolo e William Turner. La letteratura, dal canto suo, iniziò a occuparsi del mito ovidiano già nel Medioevo, con Francesco Petrarca: il poeta, nel Canzoniere, paragona se stesso ad Apollo, respinto dalla propria amata e rimasto con il solo alloro (della poesia). In seguito, la leggenda di Dafne comparve tra l’altro nelle Egloghe boscarecce di Giovan Battista Marino e nel poemetto L’Oleandro di Gabriele D’Annunzio. Infine la musica: Dafne dà il titolo all’omonimo “dramma in musica” musicato da Jacopo Peri e Giulio Caccini su testi di Ottavio Rinuccini, ed è la protagonista di un’opera in un solo atto composta da Richard Strauss.


domenica 1 luglio 2012

MEGERA


Nella religione pagana le divinità potevano essere spaventose e crudeli come mostri. È il caso di Megera, una delle tre Erinni (le Furie romane), ripugnanti geni alati con serpenti intrecciati ai capelli e occhi stillanti gocce di sangue. Una divinità incaricata, insieme alle sorelle, di punire i colpevoli di crimini violenti, ma così spietata nell’adempiere alla propria missione di vendicatrice da essere temuta dagli onesti non meno che dai malvagi.
Spesso venivano paragonate a cagne, perché inseguivano e perseguitavano gli assassini fino a che questi, esausti o folli, non si arrendevano alla loro vendetta. Ma forse, più che alle cagne, le Erinni assomigliavano a demoni infernali, anch’essi chiamati a punire i crimini più gravi impedendo che la vita collettiva degenerasse nel caos.

GENEALOGIA DELLE ERINNI

Conosciute anche con l’ironico soprannome di Eumenidi (le “Benevole”), le tre Erinni appartenevano alla più antica generazione di divinità greche, quella preesistente all’ascesa di Zeus e degli altri dèi Olimpi. La loro nascita veniva pertanto collocata all’origine stessa del Cosmo, quando gli elementi primordiali dell’Universo, GAIA, la Madre Terra, URANO, il Cielo, PONTO, il Mare, si accoppiarono tra loro per dare vita al mondo conosciuto. A generare le Erinni, tuttavia, non fu un atto di amore bensì di violenza: Megera, Aletto e Tisifone, così si chiamavano le tre sorelle, erano infatti il frutto dell’evirazione di Urano da parte del figlio Crono, stanco della prepotenza paterna e istigato dalla madre Gaia a ribellarsi. Dallo squarcio prodotto nel ventre di Urano dalla falce di Crono sgorgò un fiume di sangue, che cadde sulla superficie terrestre e la fecondò. Nacquero così le Erinni, sulle quali neppure Zeus aveva autorità e che vennero presto venerate come dee della vendetta.

LE TRE SORELLE

Sin dai tempi di Omero, le Erinni sono rappresentate come implacabili vendicatrici delle ingiustizie e dei torti umani. Annidate nelle oscurità del Tartaro, sono creature primitive e colleriche, che si accaniscono contro le loro vittime accecandone la mente con il rimorso e la follia. Il loro habitat naturale è la Notte, da cui, secondo alcuni, discendono. Ma possono agire anche di giorno, se ciò serve per portare a compimento la loro vendetta. Il ruolo punitivo delle Erinni si esercita soprattutto nei confronti degli assassini e dei violenti; ma le tre dee non mancano di castigare anche colpe meno gravi, come la disobbedienza verso i genitori, la sopraffazione dei deboli e degli anziani, lo spergiuro, la violazione delle sacre leggi dell’ospitalità, la mancanza di pietà verso i supplici. Sono inoltre implacabili verso quanti si macchiano di hybris, un peccato di superbia che fa scordare all’uomo la sua condizione mortale spingendolo a misurarsi con gli dèi. Coprotagoniste di decine di miti greci e latini, le Erinni hanno un ruolo centrale soprattutto nel ciclo di Agamennone, il re acheo colpevole di avere sacrificato la figlia Ifigenia pur di placare la dea Artemide e consentire la partenza della flotta greca verso Troia. A seguito di questo delitto (sventato dalla stessa Artemide), le Erinni indussero Clitennestra a uccidere il marito, poi la punirono per mano del figlio Oreste e infine perseguitarono quest’ultimo in quanto assassino della madre. Un’analoga catena di disgrazie colpisce Edipo, vittima di una maledizione provocata da un crimine commesso dal padre Laio ben prima della sua nascita.
A lungo ritenute divinità terrene, le Erinni, in epoca tarda, cominciarono a essere concepite come creature infernali, che perseguitavano i colpevoli anche dopo la morte, torturandoli nel Tartaro con le loro fruste e atterrendoli con i sibili dei serpenti intrecciati ai loro capelli.


COMPLICI NEL DELITTO

Quando Clitennestra, insieme all’amante Egisto, uccise il marito Agamennone, Oreste fu salvato dalla sorella Elettra, che lo inviò in segreto presso Strofio, re della Focide. Lì l’eroe rimase fino alla maggiore età, quando tornò ad Argo e, con l’aiuto della sorella, vendicò la morte del padre.

LA “DEA TRIPLICE”

Sono tre, ma di fatto agiscono come un’unica divinità, quasi costituissero un’entità indistinta e indivisibile. L’archetipo della “dea triplice” (un termine divulgato dallo scrittore inglese Robert Graves), ricorrente in tutte le culture indoeuropee, torna spesso anche nella mitologia greco-romana. Oltre alle Erinni, ricadono sotto questo modello anche le Moire o Parche, personificazioni del destino umano assegnato a ciascun individuo. Un terzetto di sorelle che, pur avendo nomi diversi (Atropo, Cloto e Lachesi), assolvono tutte insieme allo stesso compito: fare in modo che ogni essere umano abbia in sorte la sua moira, cioè la parte di vita, felicità, sfortuna concessagli dal Fato. Che poi, nell’ambito di questa funzione, ognuna delle Parche svolga mansioni diverse (Cloto fila la tela della vita, Lachesi la avvolge sul fuso corrispondente, Atropo la taglia quando è giunta al termine) è meno rilevante del fatto che alle tre figlie di Zeus e Temi non sia consentito agire separatamente, poiché solo la loro unione garantisce il pieno rispetto di quella legge del destino che neppure gli dèi possono trasgredire.
Al pari delle Moire, anche le Ore, nate come le loro sorelle dall’unione tra Zeus e Temi, non sono concepibili come entità distinte. Per certi aspetti, anzi, sono persino più simbiotiche delle Moire, in quanto, a differenza di queste ultime, non rappresentano individualità definite bensì mere personificazioni di concetti astratti: la Giustizia, il Diritto e la Pace secondo Esiodo; la Fioritura primaverile, il Rigoglio estivo e il Raccolto autunnale secondo autori più antichi. Quanto ai loro compiti, variano di epoca in epoca: inizialmente venerate come dee delle Stagioni e del ciclo naturale della vegetazione, furono in seguito associate alle leggi morali, di cui erano le guardiane. Solo ai tempi dei Romani furono aumentate di numero e iniziarono a essere associate allo scorrere del tempo: gli autori latini ne contavano dodici, quante le ore del giorno, tutte danzanti attorno al carro del Sole.


SULLA SCIA DI ESCHILO

La più celebre rappresentazione delle Erinni nel mondo greco è costituita dalle Eumenidi di Eschilo. In questa tragedia, ultimo atto della trilogia Orestea, viene narrata la persecuzione delle tre dee nei confronti di Oreste, colpevole dell’omicidio di sua madre. Da questo modello, che riprende probabilmente suggestioni di molti secoli precedenti, sono derivate tutte le rielaborazioni postclassiche delle figure delle Erinni: da quella dantesca, che colloca le Furie a guardia della città infernale di Dite, alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, dove l’orrenda Aletto scatena la ribellione nel campo dei cristiani. Le Erinni compaiono anche nel Faust di Goethe, nell’Elettra di Giraudoux, nel romanzo Furia di Salman Rushdie. Sono inoltre raffigurate in dipinti di Johann Heinrich e Arnold Bocklin, oltre che celebrate nell’opera Ippolito e Aricia di Jean-Philippe Rameau.


mercoledì 27 giugno 2012

PARIDE



Bello come un dio, imperfetto come un uomo: così, nell’Iliade, Omero presenta Paride, il principe troiano che, rapendo Elena, scatenò la rabbia dei Greci e la guerra fatale alla sua città. Un personaggio anomalo e, per tanti versi, contraddittorio: amante della vita pastorale ma pronto, pur di avere Elena, a voltarle le spalle; non privo di coraggio ma così restio a battersi da essere accusato di viltà. Un personaggio, comunque, mai all’altezza del fratello Ettore e degli altri guerrieri omerici, loro sì interpreti di quella visione eroica della vita che l’Iliade intendeva celebrare.
Figlio di Priamo, fratello di Ettore, amante di Elena, giustiziere di Achille, Paride si colloca al centro, o almeno nelle vicinanze, di tutti gli snodi cruciali dell’Iliade. Eppure la sua figura rimane sempre defilata rispetto a quella degli altri eroi del poema, quasi che, agli occhi di Omero, egli dovesse rivestire un unico, scomodissimo ruolo: quello di responsabile primo, ancorché, almeno in parte, inconsapevole, della distruzione di Troia.

GENEALOGIA DI PARIDE

Nato dall’unione tra il re di Troia, Priamo, e la sua seconda moglie Ecuba, Paride discendeva attraverso il padre da quel Laomedonte che, avendo mancato alla parola data nei confronti di Eracle, aveva causato la rovina della sua stessa stirpe. Forse per questo la vita del fratello minore di Ettore fu accompagnata sin dalla nascita da funesti presagi. Poco prima di partorire Paride, infatti, Ecuba ebbe un incubo nel quale lo vide trasformarsi in una torcia che avrebbe dato fuoco a Troia e all’intera regione. Ciò spinse i sovrani a esporre il neonato sulle pendici del monte Ida, dove fu allattato da un’orsa e poi preso in cura da un pastore di nome Agelao. Divenuto adulto, Paride rivelò doti non comuni nel tiro con l’arco e nella difesa degli armenti, tanto da suscitare la simpatia di tutti i pastori locali. Le donne, invece, lo ammiravano per la sua bellezza, così eccezionale che persino la ninfa dei boschi Enone si innamorò di lui, sposandolo e dandogli un figlio, Corito. Dopo essere stato riammesso a corte, Paride lasciò Enone per Elena, l’incantevole figlia di Zeus e Leda, con la quale generò quattro figli: tre maschi, Agano, Bugono e Ideo, e una femmina, Elena. Nessuno di essi, però sopravvisse al padre: ancora in fasce, infatti, restarono uccisi nel crollo di un soffitto durante l’assedio di Troia.

IL GIUDIZIO FATALE

Alla figura di Paride si lega uno degli episodi più celebri della mitologia greca, quello relativo alla gara di bellezza tra Era, Afrodite e Atena. Secondo la leggenda, mentre erano in corso le nozze tra il re di Ftia, Peleo, e la Nereide Teti, la dea della discordia Eris, offesa per non essere stata invitata, lanciò tra i partecipanti alla festa un pomo d’oro che recava incisa la scritta “alla più bella”. Subito, tra Era, Afrodite e Atena scoppiò un violento diverbio su chi tra loro meritasse il pomo. Alla fine Zeus, stufo di quel litigio e timoroso che esso potesse minare l’unità dell’Olimpo, decise di affidare a un umano il compito di risolvere la questione. La scelta cadde su Paride, un bellissimo pastore del monte Ida noto per la sua bellezza nelle faccende amorose. Avvicinato da Ermes, il giovane dapprima rifiutò il ruolo di giudice, ma poi si lasciò convincere e ascoltò le tre dee, che peroravano ciascuna la propria causa condendola con promesse e adulazioni. Parlò per prima Era, che lusingò Paride offrendogli in cambio del suo “voto” grandi ricchezze e il dominio sull’intero mondo. Poi fu la volta di Atena, che tentò di trarre dalla sua parte il giovane assicurandogli l’invincibilità in battaglia. Infine prese la parola Afrodite, che si limitò a garantire a Paride l’amore di Elena di Sparta, la più bella tra le donne. A Paride parve che quest’ultima fosse la promessa più allettante, e decretò la vittoria di Afrodite. In tal modo, senza saperlo, aveva sancito la rovina di Troia. Già presente in forma embrionale nelle pagine dell’Iliade, il mito del concorso di bellezza tra le dee fu sviluppato soprattutto da scrittori di epoca post-omerica come il greco Luciano di Samosata e i latini Ovidio e Igino. Di esso si occuparono anche i mitografi razionalisti, che tentarono di “normalizzare” la leggenda interpretando l’apparizione delle tre dee come un sogno di Paride assopitosi sul monte Ida.


ELENA RAPITA

Dopo che Afrodite gli ebbe promesso Elena, Paride lasciò la ninfa Enone e, sotto la protezione della dea, si imbarcò per Sparta. Secondo una tradizione, la stessa Afrodite diede ordine a Enea, l’eroe troiano, di scortare Paride in questo viaggio. Una volta giunti a Sparta, i due ospiti furono accolti dai Dioscuri, i fratelli di Elena, e condotti alla corte di Menelao, che li ricevette con tutti gli onori. Poi, dovendo recarsi a Creta, per un funerale, il re spartano affidò gli stranieri alle cure della moglie Elena, raccomandandole di tenerli presso di sé fino a che essi l’avessero voluto. In breve, il fascino di Paride fece breccia nel cuore della regina, che riunì tutti i tesori a cui aveva accesso e, abbandonata la figlia Ermione a Sparta, fuggì con Paride verso Troia. Il viaggio dei due amanti fu tutt’altro che sereno: una violenta tempesta scatenata da Era sospinse infatti la loro nave fino a Sidone, in Fenicia, dove Paride si dimostrò una volta di più subdolo tradendo l’ospitalità del re e saccheggiando la città. Sfuggito all’inseguimento dei Fenici, Paride approdò infine a Troia, dove il vecchio Priamo, evidentemente immemore del sogno di Ecuba e incurante delle profezie della figlia Cassandra, lo accolse con grande affetto. Ben presto, tuttavia, dalla Grecia giunsero cattive notizie: Elena, infatti, prima di sposare Menelao, aveva avuto tra i suoi pretendenti tutti i più grandi eroi greci, tranne forse Achille. E questa schiera di principi, indignata per il “rapimento” di Elena, aveva deciso di vendicare l’oltraggio subito da Menelao, affiancandolo in una spedizione che si proponeva di punire Paride e riportare Elena in Grecia. Era l’inizio della guerra di Troia.

LONTANO DALLA BATTAGLIA

Malgrado tra le sue vittime figurino intrepidi guerrieri come Menestio ed Euchenore, secondo la tradizione il comportamento di Paride nella guerra di Troia fu tutt’altro che valoroso: oltre ad essere battuto da Menelao in duello, infatti, egli cercò in ogni modo di sottrarsi ai combattimenti, tanto che il fratello Ettore dovette rimproverarlo aspramente alla presenza di Elena per convincerlo a scendere in campo.

NASCOSTO IN UNA NUBE

Durante l’assedio di Troia, Paride affrontò il rivale Menelao in un duello che avrebbe dovuto decidere a chi spettasse Elena senza ulteriori spargimenti di sangue. Sconfitto, il principe troiano si salvò solo grazie all’intervento di Afrodite, che lo nascose dentro una spessa nube sottraendolo ai colpi dell’avversario.

IL RIFIUTO DI ENONE

Alla caduta di Troia, Paride fu ferito dal greco Filottete con una delle frecce avvelenate che erano appartenute a Eracle. Agonizzante, chiese alla prima moglie Enone, che aveva doti di guaritrice, un antidoto contro il veleno che lo stava uccidendo. Ma la ninfa, ancora offesa per l’abbandono patito dall’ex marito, si rifiutò di aiutarlo, attendendo che morisse. Poi però, pentita, si suicidò, gettandosi nella pira funebre su cui ardeva il corpo di Paride.


L’UCCISIONE DI ACHILLE

Secondo il racconto omerico, l’atto più glorioso compiuto da Paride durante la guerra di Troia fu l’uccisione di Achille, trafitto al tallone con una freccia. Anche su questo episodio, tuttavia, molti autori antichi (tra cui lo stesso Omero) nutrono dei dubbi: la maggior parte, infatti, sottolinea come a indirizzare la freccia verso l’unico punto vulnerabile di Achille sia stato non tanto Paride quanto Apollo, che in tal modo avrebbe dato compimento al destino dell’eroe. Altre versioni del mito sostengono invece che la freccia sia stata tirata direttamente da Apollo, sia pure nei panni di Paride; e altre ancora attribuiscono la morte di Achille a un agguato tesogli dallo stesso Paride nel tempio di Apollo Timbreo, a Troia, dove Achille era entrato disarmato. Secondo questa versione del mito, Achille, sul finire della sua vita, si sarebbe innamorato di Polissena, una delle figlie di Priamo. Per lei sarebbe stato anche pronto a passare tra le fila nemiche, se Paride, uccidendolo, non avesse cancellato anche l’ultima possibilità per Troia di scampare alla distruzione.

OMAGGI POSTCLASSICI

La fortuna postclassica della figura di Paride comincia già nel medioevo con l’Historia Destructionis Troiae, di Guido delle Colonne, e l’Ovide Moralisè, poema trecentesco anonimo in cui il principe troiano impersona l’uomo che si lascia travolgere dalla bellezza materiale, non curandosi della saggezza e del potere. Paride compare anche nel Faust di Wolfgang Goethe, nel poema Oenone di Alfred Tennyson, nei drammi Troilo e Cressida di William Shakespeare e La guerra di Troia non si farà di Jean Giraudoux. In campo pittorico, gli episodi del giudizio di Paride e del ratto di Elena sono stati raffigurati, tra gli altri, da Cranach il Vecchio, Peter Paul Rubens, Pierre-August Renoir e Paul Gauguin. Notevoli alcuni nudi di Paride scolpiti da Antonio Canova, mentre la musica ha omaggiato l’eroe omerico con l’opera Paride ed Elena di C.W. Gluck.